not in the dark, but far from the light
Mar. 4th, 2020 09:18 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: not in the dark, but far from the light
Fandom: Haikyuu
Prompt/missione: M2 - Grecia
Parole: 4000
Rating: safe
Hinata camminava lentamente, il rumore della suola in legno dei suoi sandali contro il pavimento di pietra rimbombava sulle le pareti del tempio, l’aria fresca che si incanalava tra le colonne andava ad sfiorargli le cosce, lasciate quasi interamente scoperte dalla bianca tunica corta, simbolo di tutti gli orfani cresciuti al tempio.
Gli anziani non gli avevano spiegato nel dettaglio che cosa avrebbe dovuto fare nel corso della cerimonia, gli avevano solo detto che avrebbe avuto un ruolo essenziale. Hinata era emozionato all’idea, contento di poter far qualcosa di utile per coloro che lo avevano accolto e cresciuto, non facendogli mai mancare nulla.
Quando il giorno era arrivato, gli avevano messo in mano un cestino pieno di frutta estiva, coperto gli occhi con una benda e gli avevano detto di cominciare a camminare in linea retta fino a raggiungere l’altare al centro del tempio.
Hinata a malapena riusciva a trattenere un sorriso che sapeva non sarebbe stato appropriato alla situazione. Ci teneva a fare bene. Camminava lentamente, attento a non inciampare. Era sempre stato goffo, sempre troppo di corsa per guardare dove stesse andando, e finiva sempre per riempirsi di lividi nei posti più improbabili.
Ma inciampare quel giorno non era un’opzione.
Qualcuno appoggiò una mano sulla sua spalla, e lo guidò in avanti di qualche altro passo e lo fece inginocchiare a terra, la pietra era liscia e fredda contro la pelle delle sue gambe. Hinata allungo le mani in avanti, dove immaginava fosse l’altare, per appoggiare il cestino, esattamente come gli era stato detto di fare. Pregava con tutto sé stesso di non fare errori in quel momento, fu sollevato quando sentì che il cestino aveva toccato una superficie e il suo peso era stato scaricato via dalle sue braccia.
Gli anziani cominciarono a cantare, dei canti che Hinata non riconosceva nonostante vivesse al tempio da quasi tutta la vita, ma non ne fu sorpreso. Quella cerimonia si teneva solo una volta ogni sette anni e la volta precedente Hinata era stato troppo piccolo per assistervi. Aveva provato a sbirciare, nascondendosi con alcuni suoi compagni dietro una colonna, ma gli anziani li avevano trovati subito e li avevano cacciato via in malo modo.
“Oh, Signore della Guerra, distruttore di uomini”, tuonò improvvisamente il capo degli anziani.
Hinata saltò sul posto per lo spavento. Non era la voce dolce che si era abituato a sentire, quella che li rimproverava quando correvano tra i giardini del tempio dicendogli di fare attenzione e guardandoli sempre con un sorriso benevolo. “Ti offriamo questo sacrificio, perchè tu tenga lontana da noi la guerra per altri sette anni. Concedici di continuare a vivere in pace”.
HInata si gelò sul posto.
Sacrificio.
Lo avevano scelto come sacrificio.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime dietro la benda.
Cominciò ad agitarsi. Provò ad alzarsi, ma delle mani sulle sue spalle lo mantennero al suo posto, provò ad agitare le braccia, ma gli vennero bloccate dietro la schiena. Una nuova mano si appoggiò sulla sua testa, costringendolo ad appoggiarla contro l’altare freddo.
Hinta cercò ancora di liberarsi, continuando a dimenarsi come un forsennato. Sentiva la pelle delle ginocchia e della fronte cominciare a bruciare per lo strusciamento contro il marmo liscio.
“Che il sangue di questo giovane plachi la tua furia, permettendoci di continuare nel nostro operato liberi dalla paura”, disse ancora il capo degli anziani, la sua voce era fredda e cupa, il tono solenne la faceva rimbombare profonda contro le pareti del tempio.
Hinata, a quelle parole, perse la forza di combattere. Era quello lo scopo? Lasciare che il tempio potesse continuare ad accogliere giovani soli e dispersi, senza più nessuno al mondo, come lo era stato lui? Se quello era il prezzo da pagare per mantenere al sicuro i suoi compagni, i ragazzi cresciuti al tempio insieme a lui, per impedire che altri morissero di freddo o fame senza un tetto sulla testa, l’avrebbe pagato volentieri.
La tensione lasciò il suo corpo, allungò il collo sull’altare per porgere meglio la nuca alla lama. Era terrorizzato. Non poteva credere che quella fosse la fine, che non avrebbe più rivisto il sole, che non avrebbe più potuto correre con gli altri in giardino. Ma lo stava facendo per loro, per la pace, per gli anziani che lo avevano cresciuto, perchè tutto continuasse come era sempre stato. La benda era ormai zuppa delle sue lacrime, cercò di trattenerle, poi si disse che non importava poi molto. Non avrebbe fatto alcuna differenza. A contatto con il marmo Hinata sentì il freddo penetrare nelle sue ossa, nella sua pelle, intrappolarlo interamente.
Sentì del movimento alle sue spalle, poi solo la sensazione di essere avvolto da aria calda, che soffiava leggera sulla sua pelle, sollevando la tunica e scompigliandogli i già caotici capelli arancioni.
Cadde in avanti e fu sorpreso di sentire, sotto le dita, la sensazione dell’erba ancora umida per la rugiada mattutina e il sole che riscaldava la pelle. Cercò di respirare e il suo naso venne riempito dall’odore di fiori, le sue orecchie dal cinguettio degli uccelli e dal ronzare delle api.
Portò di scatto le mani al viso e si scoprì gli occhi. Rimase abbagliato dalla luce e fu costretto a chiudere gli occhi e coprirli nuovamente con le mani, fino a che non si furono parzialmente abituati.
Davanti a lui trovò il giardino più bello che avesse mai visto, l’erba era verde e gli alberi pieni di frutti, farfalle volavano sul prato pieno di fiori. Hinata scattò in piedi, si mosse incerto, per saggiare le capacità del suo corpo, e respirò ancora.
Vivo.
Era vivo.
Continuò a guardarsi intorno, facendo scattare la testa da una parte all’altra, incerto su dove soffermare lo sguardo.
“Ne hai ancora per molto?”, chiese una voce alle sue spalle.
Hinata si voltò rapidamente e vide davanti a sé un uomo, era alto, aveva spalle larghe e la schiena dritta. Indossava un’armatura integrale di bronzo che risplendeva alla luce del sole, teneva in mano una lunga lancia appoggiata a terra. Aveva i tratti del viso decisi e fieri, con la mascella prominente, la bocca sottile e occhi allungati e aguzzi, i capelli neri come la notte mandavano riflessi blu alla luce del sole.
Hinata aveva visto quegli abiti in fin troppe rappresentazioni per non riconoscerla, non poteva esserci dubbi. Davanti a lui si trovava il dio della guerra in persona.
“Tu… Tu sei…”, cominciò titubante Hinata.
Come ci si rivolgeva a una divinità? Doveva inchinarsi? Fargli un’offerta?
“Puoi chiamarmi Kageyama”, lo interruppe l’uomo.
“Tu mi hai salvato”
Kageyama si spostò di lato, aprendo il campo visivo a Hinata. Vide la grande casa alle sue spalle, con pareti finemente decorate, e il resto del giardino, occupato da altri giovani più o meno della sua età, qualcuno chiacchierava all’ombra di un albero, qualcuno intrecciava collane di fiori, qualcun altro leggeva, ma tutti sembravano godersi il caldo sole di quella giornata estiva.
“Vi salvo sempre tutti”, disse Kageyama.
Hinata rimase bloccato in mezzo al giardino. Il dio della guerra, assetato di sangue, che salvava i sacrifici a lui dedicati. Era diverso da quello che gli avevano sempre raccontato.
Kageyama cominciò a camminare, ma si voltò verso di lui dopo qualche passo.
“Non vieni?”
Hinata si affrettò a seguirlo.
La vita in quel posto non era male, ma Hinata non era abituato a non aver nulla da fare. Al tempio c’era sempre qualcosa di cui dovesse occuparsi, dal consegnare qualcosa in giro per la città ad andare a raccogliere la legna mantenere il fuoco acceso in città, andare a prendere l’acqua al pozzo o controllare i più piccoli, poi c’erano le lezioni per imparare a leggere e scrivere. Venivano cresciuti per diventare sacerdoti del tempio una volta diventati grandi. Lì invece Hinata non aveva nulla da fare, qualcuno si prendeva cura di tutte le loro necessità, ogni mattina trovava dei vestiti puliti ad attenderlo - erano quasi sempre tuniche molto simili a quelle che indossava al tempio, ma di tessuto più pregiato, morbido e delicato sulla pelle. All’ora dei pasti il cibo compariva miracolosamente sui tavoli. Gli altri ragazzi gli avevano spiegato che erano degli spiriti dell’aria ad occuparsene, ma Hinata non li aveva ancora mai visti. Gli avevano anche spiegato che erano stati quegli stessi spiriti a trasportarli lì. Hinata aveva una stanza tutta per sé. Non ne aveva mai avuta una, l’aveva sempre divisa con gli altri ragazzi del tempio. Era rilassante dormire da solo, svegliarsi con una ciotola d’acqua calda è un fuoco scoppiettante nel camino. La camera era grande e lussuosa aveva un grande letto con lenzuola morbide e un tavolo sempre pieno di frutta fresca. Gli altri ragazzi anche non erano male, Hinata stava imparando a conoscerli, soprattutto adesso che erano rimasti soli. Dopo alcuni giorni dall’arrivo di Hinata, infatti, Kageyama era partito per non si sapeva bene dove.
Aveva considerato l’atmosfera di quel posto abbastanza rilassata, ma si era reso conto della tensione di fondo che aleggiava tra i ragazzi solamente quando Kageyama era partito. Era come se tutti avessero tirato un respiro di sollievo, e quello che prima era stato brusio di sottofondo era diventato risate e serenità, il volume di tutto si era alzato, la casa sembrava più viva ed abitata.
Quando Kageyama era in casa, aveva notato, era tutto più silenzioso. I ragazzi non avevano paura di lui nel senso proprio del termine, ma non erano neanche pienamente rilassati in sua presenza.
Occasionalmente altre divinità andavano in visita. Hinata aveva avuto occasione di conoscere il dio della giustizia e il dio dell’amore, aveva scoperto anche che erano sposati. Il dio dell’amore si era divertito a predire il futuro di tutti loro, ma con Hinata era rimasto sul vago, limitandosi a guardarlo con una scintilla maliziosa negli occhi. Hinata non aveva capito, ma il dio dell’amore gli aveva fatto una bella impressione. Era tornato a trovarli spesso nel corso dell’assenza di Kageyama.
Hinata, quel giorno, era steso sotto un albero a godersi i raggi del sole sul viso, quando sentì i rumori del giardino scemare a poco a poco fino a che non caló il silenzio totale. Hinata aprì gli occhi e si mise seduto con la schiena contro il tronco dell’albero. Davanti a lui vide la biga di Kageyama. Doveva essere appena atterrato, i capelli solitamente in perfetto ordine avevano qualche ciocca disordinata per via del vento. Tutti tenevano lo sguardo fisso su di lui. Kageyama si guardò intorno con l’espressione corrucciata, come a controllare che fosse tutto in ordine. Passò lo sguardo sul viso di tutti i ragazzi, sembrò saltare sul posto quando vide Hinata sorridergli e distolse subito lo sguardo. Guardandosi intorno Hinata si rese conto che era stato l’unico a farlo.
Kageyama scese dalla biga e senza dire una parola si infilò dentro casa. Il giardino sembro liberarsi dalla sua paralisi, ma il rumore rimasero più contenuti di quanto fossero stati fino a poco prima.
Quando fu l’ora di cena ancora non si aveva alcun segno di Kageyama. Di solito passava poco tempo con loro, preferendo passare il suo tempo nel cortile interno della casa piuttosto che nel giardino fuori, ma almeno durante i pasti si faceva vedere. Si sedeva al tavolo e mangiava rapidamente, si alzava non appena aveva finito e lasciava che loro finissero in pace, ma almeno si faceva vedere.
Hinata, senza pensarci troppo, riempí un piatto con del cibo e si avviò per i corridoi della casa. Da quel poco che sapeva, la camera di Kageyama era al secondo piano, dove nessuno di loro osava mai andare. Anche Hinata non ci aveva mai messo piede. Salì le scale e si avventurò per i corridoi, sorpreso di vedere come il secondo piano fosse decorato in maniera molto più spartana di quanto non fosse il piano terra, dove stavano i ragazzi.
Le porte delle camere erano tutte chiuse, tranne una, leggermente socchiusa da cui flirtava un po’ di luce. Hinata sbirciò all’interno. Kageyama era disteso sul letto, con un braccio a coprire gli occhi. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo regolare, sembrava che stesse dormendo. Hinata non voleva disturbarlo, ma era arrivato fino a lì ormai. Aprì piano la porta e si infilò all’interno.
La camera di Kageyama era molto più semplice della sua, non aveva quasi nessuna decorazione sulle pareti spoglie, le tende erano di un bianco semplice, senza decorazioni dorate cucite nel tessuto.
Hinata, in punta di piedi si avvicinò al tavolo e appoggiò il piatto sul tavolo.
“Che stai facendo?”
Hinata saltò sul posto e lasciò quasi cadere il piatto. Si voltò. Kageyama non si era mosso dalla sua posizione, aveva ancora un braccio a coprirgli gli occhi. Hinata si chiese se avesse fatto abbastanza rumore da svegliarlo, e pensare che aveva provato a stare attento anche a non far scricchiolare il legno del pavimento.
“Non volevo disturbare”, cominciò a balbettare.
“Non ho detto che l’hai fatto”
“Oh”
Kageyama si scoprì il viso e si mise seduto sul letto, aprì gli occhi e vide il piatto in mano a Hinata.
Hinata glielo porse.
“Non sei sceso a cena”, gli disse.
Kageyama lo ringraziò con un cenno del capo e cominciò a mangiare.
Hinata gli riempí un bicchiere di vino dalla brocca sul tavolo e glielo porse. Kageyama bevve. Hinata rimase fermo lì per qualche secondo, poi fece per andarsene.
Kageyama aveva il viso stanco, profonde occhiaie intorno agli occhi e teneva le spalle curve, non sembrava essere nelle migliori condizioni. Avrebbe voluto chiedergli quale fosse il problema, ma non sentiva di essere nella posizione di farlo. Gli venne anche in mente che rimanere lì a guardare un dio nelle sue stanze private mente mangiava la propria cena poteva essere considerato un’offesa. Si riscosse, fece un piccolo inchino a Kageyama e si diresse verso la porta.
“Resta”, gli chiese Kageyama. La sua voce era piccola, fragile. Diversa dal tono fiero con cui l’aveva sempre sentito parlare.
Hinata appoggiò una mano allo stipite della porta e si voltò verso di lui. Kageyama teneva lo sguardo basso, il pugno stretto sopra le lenzuola mentre l’altra mano teneva ancora il piatto mezzo pieno.
Hinata annuì e tornó indietro. Si sedette sulla sedia di legno di fronte a lui.
Nessuno dei due disse altro.
Divenne un'occorrenza piuttosto comune. Ogni giorno, dopo il pranzo, quando tutti si sdraiavano in giardino per riposare un po', Hinata raggiungeva Kageyama o nelle sue stanze o nel cortile interno.
Frequentandolo di più, Hinata si rese conto che era molto meno terrificante di quanto sembrasse. Era incapace a comunicare, non voleva essere spaventoso come risultava, ma adesso HInata lo aveva capito e aveva smesso di lasciarsi bloccare dalla sua apparenza.
"Dovresti venire più spesso in giardino, parlare anche con gli altri", gli disse un giorno HInata.
"Hanno paura di me"
"Hanno paura di te perchè ogni volta che compari hai sempre quell'espressione cupa e terrificante. Dovresti sorridere di più"
Kageyama alzò un sopracciglio nella sua direzione.
"Se sapessi come fare lo farei"
"Allora fai una prova. Andiamo, sorridi!", gli disse ancora Hinata con il suo sorriso luminoso.
Kageyama sospirò rassegnato e ci provò.
Quello che venne fuori fu un ghigno inquietante. Hinata scattò indietro di qualche passo.
"Okay", disse titubante. "Possiamo lavorarci".
"Non oggi", rispose Kageyama, mettendo il broncio.
Se Hinata aveva imparato qualcosa su Kageyama in quei giorni era che detestava non essere in grado di fare qualcosa, qualunque cosa essa fosse. Era competitivo e testardo. Ridacchiò. Quando faceva così sembrava tutto tranne che il terrificante dio della guerra che gli avevano insegnato a temere al tempio.
Erano seduti sull'erba del cortile interno, Hinata aveva le gambe distese davanti a sé e la schiena appoggiata al pozzo in pietra.
"Va bene", concesse. "Riproviamo domani", disse reclinando indietro la testa e chiudendo gli occhi, lasciando che il sole gli riscaldasse il viso.
Vennero raggiunti da un messaggero. Kageyama si alzò e lo condusse nella sala principale, lasciando indietro Hinata.
Circa un’ora dopo Hinata vide il messaggero lasciare la casa. Hinata si addentrò in casa, percorse i corridoi fino a raggiungere la stanza principale. La porta era aperta. Kageyama era in piedi, appoggiato al tavolo, con la schiena curva e la testa abbassata. Bussò alla porta per rendere nota la sua presenza.
Kageyama alzò la testa.
“Tutto okay?”, gli chiese Hinata.
Kageyama raddrizzò le spalle e annuì. “Devo prepararmi a partire”
“Oh”, Hinata abbassò lo sguardo.
Si era quasi dimenticato che la persona che stava imparando a conoscere era il temibile dio della guerra, che sarebbe partito per andare a portare morte e distruzione ovunque.
“Non devi andare per forza”, gli disse Hinata.
“Invece sì”
“Perchè? Perchè non puoi restare qui e lasciare che la gente viva in pace?”, alzò la voce Hinata.
“Perchè non dipende da me!”, tuonò Kageyama.
Hinata fu per un secondo spaventato da lui, ricordandosi in quel momento la vera potenza di chi avesse davanti, ma non aveva intenzione di arrendersi.
“Come puoi dire che non dipende da te? Sei tu il dio della guerra. La gente muore in guerra! I miei genitori erano innocenti e sono stati uccisi dagli invasori, non avevano fatto nulla di male! E quanti altri come loro?”
“Quella non è la guerra. La guerra è solo quella sul campo di battaglia. Quello è un massacro inutile”
“Basterebbe non scatenare guerre e non accadrebbe neanche quello!”
“Non sono io a scatenare guerre e non posso impedire agli uomini di dichiararsi guerra! Non posso impedire agli altri dei di scatenare guerre per il loro tornaconto”, continuò Kageyama. “Credi che mi piaccia? E’ da quando sono nato che non vedo altro che morte e distruzione, ovunque mi chiamano vedo solo quello. La gente è convinta che per farmi contento debbano sacrificare vivi degli adolescenti, cazzo!”
Hinata era paralizzato sul posto, gli occhi di Kageyama erano ridotti a fessure e il suo intero corpo emetteva un’aura minacciosa.
“Kageyama, io…”, Hinata provò di nuovo ad avvicinarsi a lui, ma Kageyama si allontanò.
“Devo andare”, gli disse freddo. Recuperò il suo elmo e si diresse verso la sua biga.
Hinata lo seguì fino alla biga, avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole giuste, riuscì solo a guardarlo andare via con gli occhi spalancati, una fastidiosa sensazione allo stomaco e gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime.
Passarono i giorni e le stagioni e Kageyama non tornava. Ogni giorno Hinata guardava in ogni angolo del giardino, alla ricerca di un qualunque segno del ritorno di Kageyama, ma non riusciva a vederne alcuno. La fastidiosa sensazione allo stomaco non lo lasciava mai, mangiava il minimo indispensabile e dormiva a malapena. Detestava il modo in cui si erano salutati, detestava di aver lasciato partire Kageyama in quel modo, senza riuscire a dirgli nulla.
Era piena notte, più di sei mesi dopo, quando sentì i cavalli della biga nitrire.
Si alzò di scatto dal letto e si affacciò alla finestra. Alla luce della luna vide la biga atterrare, Kageyama scendere dalla biga e cominciare a muoversi su passo tremante verso la casa.
Subito Hinata uscì dalla sua stanza e corse verso quella di Kageyama. Un bacino d’acqua calda era stato sistemato accanto al letto e candele erano state accese in tutta la stanza. Kageyama non era ancora arrivato e Hinata cominciò a camminare avanti e indietro nervosamente.
Non era sicuro che dovesse essere lì, non era sicuro che Kageyama lo volesse lì.
Ogni pensiero svanì quando vide entrare Kageyama. Hinata spalancò gli occhi per la sorpresa quando se lo vide davanti.
Sembrava distrutto, aveva il viso di chi non dormiva da mesi, appariva ancora più spettrale alla luce delle candele, l’armatura era ricoperta di sangue, alcuni schizzi avevano raggiunto il suo viso ed era ricoperto di sangue e sudore.
Quando vide Hinata spalancò gli occhi poi abbassò di nuovo lo sguardo, nascondendosi il viso dietro la frangia che si era allungata in quei sei mesi, il resto dei suoi capelli era tirato indietro in una crocchia disordinata.
“Non ho voglia di discutere”, gli disse solo.
Hinata non disse nulla, si avvicinò a Kageyama e in silenzio lo aiutò a togliersi l’armatura, smontando con attenzione ogni singolo pezzo e appoggiandolo delicatamente sul pavimento della stanza. Kageyama lo lasciò fare, guidandolo con le dita più esperte quando Hinata si bloccava in qualche passaggio. Kageyama rimase con indosso solo le mezza tunica che usava sotto l’armatura. Hinata non l’aveva mai visto senza armatura, aveva la pelle chiara e un fisico asciutto e scolpito. Lo prese poi per mano, la sua mano era ruvida per i calli del costante allenamento con la spada e calda. Era la prima volta che toccava Kageyama ed era abbastanza sicuro che stesse superando parecchi confini che un umano non avrebbe dovuto oltrepassare, ma in quel momento non gli interessava e, soprattutto, sentiva che quello di cui Kageyama aveva bisogno.
Hinata recuperò un catino d’acqua già calda, messa nella stanza di Kageyama da uno degli spiriti dell’aria probabilmente.
Si inginocchiò davanti a lui, bagnò una pezza nell’acqua calda e profumata di oli essenziali e cominciò a passarla delicatamente sulle gambe di Kageyama. Risalì piano per tutto il suo corpo, lavando con attenzione anche gli schizzi di sangue che erano riusciti a penetrare attraverso l’armatura di bronzo. Gli prese il viso tra le mani e glielo fece voltare di lato, per pulirgli con attenzione il collo. Hinata passava delicatamente la pezza, non volendo insistere sulla pelle. Hinata si alzò in piedi quando arrivò al viso di Kageyama, passò delicatamente la pezza sulle sue guance, sul suo viso.
Kageyama chiuse gli occhi e si rilassò al contatto, con la testa reclinata verso l’alto. Il suo viso, rilassato, appariva più delicato, illuminato dalla luce della luna.
Hinata, quando finì, fece un passo indietro per osservare il suo lavoro. Alla luce delle candele non riusciva a vedere molto, ma almeno il grosso sembrava pulito.
Hinata si avvicinò nuovamente a lui, gli sciolse i capelli e accarezzò delicatamente il viso di Kageyama. Kageyama aprì gli occhi, ancora la testa inclinata verso l’alto e guardò Hinata negli occhi. Hinata gli sorrise dolcemente.
“Dormi adesso”, disse.
Si allontanò da lui, ma Kageyama lo prese per il polso.
“Resta”
Hinata potè leggere la preghiera silenziosa nei suoi occhi. Kageyama non voleva rimanere solo.
Hinata annuì e si avvicinò a lui.
“Sdraiati”
Kageyama lo fece. Hinata si sedette accanto alla sua testa e gliela fece appoggiare alle sue gambe. Il respiro di Kageyama gli solleticava le cosce lasciate scoperte dalla tunica corta.
Hinata cominciò a passargli le mani tra i capelli.
“E’ stato terribile”, disse Kageyama. “Non ho mai visto un massacro di questo tipo. Sono dovuto scendere in campo alla fine”
Hinata non disse nulla, continuò ad accarezzargli i capelli, mentre Kageyama continuava a parlare di quello che aveva visto.
Non riusciva a capire come facesse a sopportare tutto quello, era un mistero per lui. Come riuscisse a vedere quelle cose e sopportare tutto da solo.
Hinata portò una mano a stringere la sua gamba. Piano piano cominciò a rilassarsi, Hinata sentì il suo respiro farsi più regolare.
Hinata, cercando di non disturbarlo, cercò di districarsi per allontanarsi e lasciarlo dormire, ma nel dormiveglia Kageyama emise un mugolio triste. Hinata lo coprì meglio con il lenzuolo e si infilò nel letto con lui.
Kageyama si appoggiò al suo petto e Hinata lo strinse.
Hinata stava cominciando a capire perchè lo facesse. Voleva solo costruirsi un posto dove tornare che gli permettesse di dimenticare gli orrori della guerra. Quanto doveva essere terribile per lui tornare a casa e vedere che era temuto esattamente come lo era in guerra? Vedere tutti che cercavano sempre di allontanarsi da lui?
Hinata lo strinse un po’ più forte, Kageyama ricambiò la stretta, facendo passare una mano sulla pancia di Hinata e si rilassò un po’ di più nell’abbraccio.
Hinata lo tenne stretto per tutta la notte, non riuscendo a prendere sonno con tutti quei pensieri che si arrovellavano per la testa.
Voleva essere lui, realizzò.
Voleva essere il porto sicuro per Kageyama.
Voleva aiutarlo.
Nessuno poteva sopportare tutto quello da solo.
Sì, decise Hinata. Sarebbe rimasto.
Fandom: Haikyuu
Prompt/missione: M2 - Grecia
Parole: 4000
Rating: safe
Hinata camminava lentamente, il rumore della suola in legno dei suoi sandali contro il pavimento di pietra rimbombava sulle le pareti del tempio, l’aria fresca che si incanalava tra le colonne andava ad sfiorargli le cosce, lasciate quasi interamente scoperte dalla bianca tunica corta, simbolo di tutti gli orfani cresciuti al tempio.
Gli anziani non gli avevano spiegato nel dettaglio che cosa avrebbe dovuto fare nel corso della cerimonia, gli avevano solo detto che avrebbe avuto un ruolo essenziale. Hinata era emozionato all’idea, contento di poter far qualcosa di utile per coloro che lo avevano accolto e cresciuto, non facendogli mai mancare nulla.
Quando il giorno era arrivato, gli avevano messo in mano un cestino pieno di frutta estiva, coperto gli occhi con una benda e gli avevano detto di cominciare a camminare in linea retta fino a raggiungere l’altare al centro del tempio.
Hinata a malapena riusciva a trattenere un sorriso che sapeva non sarebbe stato appropriato alla situazione. Ci teneva a fare bene. Camminava lentamente, attento a non inciampare. Era sempre stato goffo, sempre troppo di corsa per guardare dove stesse andando, e finiva sempre per riempirsi di lividi nei posti più improbabili.
Ma inciampare quel giorno non era un’opzione.
Qualcuno appoggiò una mano sulla sua spalla, e lo guidò in avanti di qualche altro passo e lo fece inginocchiare a terra, la pietra era liscia e fredda contro la pelle delle sue gambe. Hinata allungo le mani in avanti, dove immaginava fosse l’altare, per appoggiare il cestino, esattamente come gli era stato detto di fare. Pregava con tutto sé stesso di non fare errori in quel momento, fu sollevato quando sentì che il cestino aveva toccato una superficie e il suo peso era stato scaricato via dalle sue braccia.
Gli anziani cominciarono a cantare, dei canti che Hinata non riconosceva nonostante vivesse al tempio da quasi tutta la vita, ma non ne fu sorpreso. Quella cerimonia si teneva solo una volta ogni sette anni e la volta precedente Hinata era stato troppo piccolo per assistervi. Aveva provato a sbirciare, nascondendosi con alcuni suoi compagni dietro una colonna, ma gli anziani li avevano trovati subito e li avevano cacciato via in malo modo.
“Oh, Signore della Guerra, distruttore di uomini”, tuonò improvvisamente il capo degli anziani.
Hinata saltò sul posto per lo spavento. Non era la voce dolce che si era abituato a sentire, quella che li rimproverava quando correvano tra i giardini del tempio dicendogli di fare attenzione e guardandoli sempre con un sorriso benevolo. “Ti offriamo questo sacrificio, perchè tu tenga lontana da noi la guerra per altri sette anni. Concedici di continuare a vivere in pace”.
HInata si gelò sul posto.
Sacrificio.
Lo avevano scelto come sacrificio.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime dietro la benda.
Cominciò ad agitarsi. Provò ad alzarsi, ma delle mani sulle sue spalle lo mantennero al suo posto, provò ad agitare le braccia, ma gli vennero bloccate dietro la schiena. Una nuova mano si appoggiò sulla sua testa, costringendolo ad appoggiarla contro l’altare freddo.
Hinta cercò ancora di liberarsi, continuando a dimenarsi come un forsennato. Sentiva la pelle delle ginocchia e della fronte cominciare a bruciare per lo strusciamento contro il marmo liscio.
“Che il sangue di questo giovane plachi la tua furia, permettendoci di continuare nel nostro operato liberi dalla paura”, disse ancora il capo degli anziani, la sua voce era fredda e cupa, il tono solenne la faceva rimbombare profonda contro le pareti del tempio.
Hinata, a quelle parole, perse la forza di combattere. Era quello lo scopo? Lasciare che il tempio potesse continuare ad accogliere giovani soli e dispersi, senza più nessuno al mondo, come lo era stato lui? Se quello era il prezzo da pagare per mantenere al sicuro i suoi compagni, i ragazzi cresciuti al tempio insieme a lui, per impedire che altri morissero di freddo o fame senza un tetto sulla testa, l’avrebbe pagato volentieri.
La tensione lasciò il suo corpo, allungò il collo sull’altare per porgere meglio la nuca alla lama. Era terrorizzato. Non poteva credere che quella fosse la fine, che non avrebbe più rivisto il sole, che non avrebbe più potuto correre con gli altri in giardino. Ma lo stava facendo per loro, per la pace, per gli anziani che lo avevano cresciuto, perchè tutto continuasse come era sempre stato. La benda era ormai zuppa delle sue lacrime, cercò di trattenerle, poi si disse che non importava poi molto. Non avrebbe fatto alcuna differenza. A contatto con il marmo Hinata sentì il freddo penetrare nelle sue ossa, nella sua pelle, intrappolarlo interamente.
Sentì del movimento alle sue spalle, poi solo la sensazione di essere avvolto da aria calda, che soffiava leggera sulla sua pelle, sollevando la tunica e scompigliandogli i già caotici capelli arancioni.
Cadde in avanti e fu sorpreso di sentire, sotto le dita, la sensazione dell’erba ancora umida per la rugiada mattutina e il sole che riscaldava la pelle. Cercò di respirare e il suo naso venne riempito dall’odore di fiori, le sue orecchie dal cinguettio degli uccelli e dal ronzare delle api.
Portò di scatto le mani al viso e si scoprì gli occhi. Rimase abbagliato dalla luce e fu costretto a chiudere gli occhi e coprirli nuovamente con le mani, fino a che non si furono parzialmente abituati.
Davanti a lui trovò il giardino più bello che avesse mai visto, l’erba era verde e gli alberi pieni di frutti, farfalle volavano sul prato pieno di fiori. Hinata scattò in piedi, si mosse incerto, per saggiare le capacità del suo corpo, e respirò ancora.
Vivo.
Era vivo.
Continuò a guardarsi intorno, facendo scattare la testa da una parte all’altra, incerto su dove soffermare lo sguardo.
“Ne hai ancora per molto?”, chiese una voce alle sue spalle.
Hinata si voltò rapidamente e vide davanti a sé un uomo, era alto, aveva spalle larghe e la schiena dritta. Indossava un’armatura integrale di bronzo che risplendeva alla luce del sole, teneva in mano una lunga lancia appoggiata a terra. Aveva i tratti del viso decisi e fieri, con la mascella prominente, la bocca sottile e occhi allungati e aguzzi, i capelli neri come la notte mandavano riflessi blu alla luce del sole.
Hinata aveva visto quegli abiti in fin troppe rappresentazioni per non riconoscerla, non poteva esserci dubbi. Davanti a lui si trovava il dio della guerra in persona.
“Tu… Tu sei…”, cominciò titubante Hinata.
Come ci si rivolgeva a una divinità? Doveva inchinarsi? Fargli un’offerta?
“Puoi chiamarmi Kageyama”, lo interruppe l’uomo.
“Tu mi hai salvato”
Kageyama si spostò di lato, aprendo il campo visivo a Hinata. Vide la grande casa alle sue spalle, con pareti finemente decorate, e il resto del giardino, occupato da altri giovani più o meno della sua età, qualcuno chiacchierava all’ombra di un albero, qualcuno intrecciava collane di fiori, qualcun altro leggeva, ma tutti sembravano godersi il caldo sole di quella giornata estiva.
“Vi salvo sempre tutti”, disse Kageyama.
Hinata rimase bloccato in mezzo al giardino. Il dio della guerra, assetato di sangue, che salvava i sacrifici a lui dedicati. Era diverso da quello che gli avevano sempre raccontato.
Kageyama cominciò a camminare, ma si voltò verso di lui dopo qualche passo.
“Non vieni?”
Hinata si affrettò a seguirlo.
La vita in quel posto non era male, ma Hinata non era abituato a non aver nulla da fare. Al tempio c’era sempre qualcosa di cui dovesse occuparsi, dal consegnare qualcosa in giro per la città ad andare a raccogliere la legna mantenere il fuoco acceso in città, andare a prendere l’acqua al pozzo o controllare i più piccoli, poi c’erano le lezioni per imparare a leggere e scrivere. Venivano cresciuti per diventare sacerdoti del tempio una volta diventati grandi. Lì invece Hinata non aveva nulla da fare, qualcuno si prendeva cura di tutte le loro necessità, ogni mattina trovava dei vestiti puliti ad attenderlo - erano quasi sempre tuniche molto simili a quelle che indossava al tempio, ma di tessuto più pregiato, morbido e delicato sulla pelle. All’ora dei pasti il cibo compariva miracolosamente sui tavoli. Gli altri ragazzi gli avevano spiegato che erano degli spiriti dell’aria ad occuparsene, ma Hinata non li aveva ancora mai visti. Gli avevano anche spiegato che erano stati quegli stessi spiriti a trasportarli lì. Hinata aveva una stanza tutta per sé. Non ne aveva mai avuta una, l’aveva sempre divisa con gli altri ragazzi del tempio. Era rilassante dormire da solo, svegliarsi con una ciotola d’acqua calda è un fuoco scoppiettante nel camino. La camera era grande e lussuosa aveva un grande letto con lenzuola morbide e un tavolo sempre pieno di frutta fresca. Gli altri ragazzi anche non erano male, Hinata stava imparando a conoscerli, soprattutto adesso che erano rimasti soli. Dopo alcuni giorni dall’arrivo di Hinata, infatti, Kageyama era partito per non si sapeva bene dove.
Aveva considerato l’atmosfera di quel posto abbastanza rilassata, ma si era reso conto della tensione di fondo che aleggiava tra i ragazzi solamente quando Kageyama era partito. Era come se tutti avessero tirato un respiro di sollievo, e quello che prima era stato brusio di sottofondo era diventato risate e serenità, il volume di tutto si era alzato, la casa sembrava più viva ed abitata.
Quando Kageyama era in casa, aveva notato, era tutto più silenzioso. I ragazzi non avevano paura di lui nel senso proprio del termine, ma non erano neanche pienamente rilassati in sua presenza.
Occasionalmente altre divinità andavano in visita. Hinata aveva avuto occasione di conoscere il dio della giustizia e il dio dell’amore, aveva scoperto anche che erano sposati. Il dio dell’amore si era divertito a predire il futuro di tutti loro, ma con Hinata era rimasto sul vago, limitandosi a guardarlo con una scintilla maliziosa negli occhi. Hinata non aveva capito, ma il dio dell’amore gli aveva fatto una bella impressione. Era tornato a trovarli spesso nel corso dell’assenza di Kageyama.
Hinata, quel giorno, era steso sotto un albero a godersi i raggi del sole sul viso, quando sentì i rumori del giardino scemare a poco a poco fino a che non caló il silenzio totale. Hinata aprì gli occhi e si mise seduto con la schiena contro il tronco dell’albero. Davanti a lui vide la biga di Kageyama. Doveva essere appena atterrato, i capelli solitamente in perfetto ordine avevano qualche ciocca disordinata per via del vento. Tutti tenevano lo sguardo fisso su di lui. Kageyama si guardò intorno con l’espressione corrucciata, come a controllare che fosse tutto in ordine. Passò lo sguardo sul viso di tutti i ragazzi, sembrò saltare sul posto quando vide Hinata sorridergli e distolse subito lo sguardo. Guardandosi intorno Hinata si rese conto che era stato l’unico a farlo.
Kageyama scese dalla biga e senza dire una parola si infilò dentro casa. Il giardino sembro liberarsi dalla sua paralisi, ma il rumore rimasero più contenuti di quanto fossero stati fino a poco prima.
Quando fu l’ora di cena ancora non si aveva alcun segno di Kageyama. Di solito passava poco tempo con loro, preferendo passare il suo tempo nel cortile interno della casa piuttosto che nel giardino fuori, ma almeno durante i pasti si faceva vedere. Si sedeva al tavolo e mangiava rapidamente, si alzava non appena aveva finito e lasciava che loro finissero in pace, ma almeno si faceva vedere.
Hinata, senza pensarci troppo, riempí un piatto con del cibo e si avviò per i corridoi della casa. Da quel poco che sapeva, la camera di Kageyama era al secondo piano, dove nessuno di loro osava mai andare. Anche Hinata non ci aveva mai messo piede. Salì le scale e si avventurò per i corridoi, sorpreso di vedere come il secondo piano fosse decorato in maniera molto più spartana di quanto non fosse il piano terra, dove stavano i ragazzi.
Le porte delle camere erano tutte chiuse, tranne una, leggermente socchiusa da cui flirtava un po’ di luce. Hinata sbirciò all’interno. Kageyama era disteso sul letto, con un braccio a coprire gli occhi. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo regolare, sembrava che stesse dormendo. Hinata non voleva disturbarlo, ma era arrivato fino a lì ormai. Aprì piano la porta e si infilò all’interno.
La camera di Kageyama era molto più semplice della sua, non aveva quasi nessuna decorazione sulle pareti spoglie, le tende erano di un bianco semplice, senza decorazioni dorate cucite nel tessuto.
Hinata, in punta di piedi si avvicinò al tavolo e appoggiò il piatto sul tavolo.
“Che stai facendo?”
Hinata saltò sul posto e lasciò quasi cadere il piatto. Si voltò. Kageyama non si era mosso dalla sua posizione, aveva ancora un braccio a coprirgli gli occhi. Hinata si chiese se avesse fatto abbastanza rumore da svegliarlo, e pensare che aveva provato a stare attento anche a non far scricchiolare il legno del pavimento.
“Non volevo disturbare”, cominciò a balbettare.
“Non ho detto che l’hai fatto”
“Oh”
Kageyama si scoprì il viso e si mise seduto sul letto, aprì gli occhi e vide il piatto in mano a Hinata.
Hinata glielo porse.
“Non sei sceso a cena”, gli disse.
Kageyama lo ringraziò con un cenno del capo e cominciò a mangiare.
Hinata gli riempí un bicchiere di vino dalla brocca sul tavolo e glielo porse. Kageyama bevve. Hinata rimase fermo lì per qualche secondo, poi fece per andarsene.
Kageyama aveva il viso stanco, profonde occhiaie intorno agli occhi e teneva le spalle curve, non sembrava essere nelle migliori condizioni. Avrebbe voluto chiedergli quale fosse il problema, ma non sentiva di essere nella posizione di farlo. Gli venne anche in mente che rimanere lì a guardare un dio nelle sue stanze private mente mangiava la propria cena poteva essere considerato un’offesa. Si riscosse, fece un piccolo inchino a Kageyama e si diresse verso la porta.
“Resta”, gli chiese Kageyama. La sua voce era piccola, fragile. Diversa dal tono fiero con cui l’aveva sempre sentito parlare.
Hinata appoggiò una mano allo stipite della porta e si voltò verso di lui. Kageyama teneva lo sguardo basso, il pugno stretto sopra le lenzuola mentre l’altra mano teneva ancora il piatto mezzo pieno.
Hinata annuì e tornó indietro. Si sedette sulla sedia di legno di fronte a lui.
Nessuno dei due disse altro.
Divenne un'occorrenza piuttosto comune. Ogni giorno, dopo il pranzo, quando tutti si sdraiavano in giardino per riposare un po', Hinata raggiungeva Kageyama o nelle sue stanze o nel cortile interno.
Frequentandolo di più, Hinata si rese conto che era molto meno terrificante di quanto sembrasse. Era incapace a comunicare, non voleva essere spaventoso come risultava, ma adesso HInata lo aveva capito e aveva smesso di lasciarsi bloccare dalla sua apparenza.
"Dovresti venire più spesso in giardino, parlare anche con gli altri", gli disse un giorno HInata.
"Hanno paura di me"
"Hanno paura di te perchè ogni volta che compari hai sempre quell'espressione cupa e terrificante. Dovresti sorridere di più"
Kageyama alzò un sopracciglio nella sua direzione.
"Se sapessi come fare lo farei"
"Allora fai una prova. Andiamo, sorridi!", gli disse ancora Hinata con il suo sorriso luminoso.
Kageyama sospirò rassegnato e ci provò.
Quello che venne fuori fu un ghigno inquietante. Hinata scattò indietro di qualche passo.
"Okay", disse titubante. "Possiamo lavorarci".
"Non oggi", rispose Kageyama, mettendo il broncio.
Se Hinata aveva imparato qualcosa su Kageyama in quei giorni era che detestava non essere in grado di fare qualcosa, qualunque cosa essa fosse. Era competitivo e testardo. Ridacchiò. Quando faceva così sembrava tutto tranne che il terrificante dio della guerra che gli avevano insegnato a temere al tempio.
Erano seduti sull'erba del cortile interno, Hinata aveva le gambe distese davanti a sé e la schiena appoggiata al pozzo in pietra.
"Va bene", concesse. "Riproviamo domani", disse reclinando indietro la testa e chiudendo gli occhi, lasciando che il sole gli riscaldasse il viso.
Vennero raggiunti da un messaggero. Kageyama si alzò e lo condusse nella sala principale, lasciando indietro Hinata.
Circa un’ora dopo Hinata vide il messaggero lasciare la casa. Hinata si addentrò in casa, percorse i corridoi fino a raggiungere la stanza principale. La porta era aperta. Kageyama era in piedi, appoggiato al tavolo, con la schiena curva e la testa abbassata. Bussò alla porta per rendere nota la sua presenza.
Kageyama alzò la testa.
“Tutto okay?”, gli chiese Hinata.
Kageyama raddrizzò le spalle e annuì. “Devo prepararmi a partire”
“Oh”, Hinata abbassò lo sguardo.
Si era quasi dimenticato che la persona che stava imparando a conoscere era il temibile dio della guerra, che sarebbe partito per andare a portare morte e distruzione ovunque.
“Non devi andare per forza”, gli disse Hinata.
“Invece sì”
“Perchè? Perchè non puoi restare qui e lasciare che la gente viva in pace?”, alzò la voce Hinata.
“Perchè non dipende da me!”, tuonò Kageyama.
Hinata fu per un secondo spaventato da lui, ricordandosi in quel momento la vera potenza di chi avesse davanti, ma non aveva intenzione di arrendersi.
“Come puoi dire che non dipende da te? Sei tu il dio della guerra. La gente muore in guerra! I miei genitori erano innocenti e sono stati uccisi dagli invasori, non avevano fatto nulla di male! E quanti altri come loro?”
“Quella non è la guerra. La guerra è solo quella sul campo di battaglia. Quello è un massacro inutile”
“Basterebbe non scatenare guerre e non accadrebbe neanche quello!”
“Non sono io a scatenare guerre e non posso impedire agli uomini di dichiararsi guerra! Non posso impedire agli altri dei di scatenare guerre per il loro tornaconto”, continuò Kageyama. “Credi che mi piaccia? E’ da quando sono nato che non vedo altro che morte e distruzione, ovunque mi chiamano vedo solo quello. La gente è convinta che per farmi contento debbano sacrificare vivi degli adolescenti, cazzo!”
Hinata era paralizzato sul posto, gli occhi di Kageyama erano ridotti a fessure e il suo intero corpo emetteva un’aura minacciosa.
“Kageyama, io…”, Hinata provò di nuovo ad avvicinarsi a lui, ma Kageyama si allontanò.
“Devo andare”, gli disse freddo. Recuperò il suo elmo e si diresse verso la sua biga.
Hinata lo seguì fino alla biga, avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole giuste, riuscì solo a guardarlo andare via con gli occhi spalancati, una fastidiosa sensazione allo stomaco e gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime.
Passarono i giorni e le stagioni e Kageyama non tornava. Ogni giorno Hinata guardava in ogni angolo del giardino, alla ricerca di un qualunque segno del ritorno di Kageyama, ma non riusciva a vederne alcuno. La fastidiosa sensazione allo stomaco non lo lasciava mai, mangiava il minimo indispensabile e dormiva a malapena. Detestava il modo in cui si erano salutati, detestava di aver lasciato partire Kageyama in quel modo, senza riuscire a dirgli nulla.
Era piena notte, più di sei mesi dopo, quando sentì i cavalli della biga nitrire.
Si alzò di scatto dal letto e si affacciò alla finestra. Alla luce della luna vide la biga atterrare, Kageyama scendere dalla biga e cominciare a muoversi su passo tremante verso la casa.
Subito Hinata uscì dalla sua stanza e corse verso quella di Kageyama. Un bacino d’acqua calda era stato sistemato accanto al letto e candele erano state accese in tutta la stanza. Kageyama non era ancora arrivato e Hinata cominciò a camminare avanti e indietro nervosamente.
Non era sicuro che dovesse essere lì, non era sicuro che Kageyama lo volesse lì.
Ogni pensiero svanì quando vide entrare Kageyama. Hinata spalancò gli occhi per la sorpresa quando se lo vide davanti.
Sembrava distrutto, aveva il viso di chi non dormiva da mesi, appariva ancora più spettrale alla luce delle candele, l’armatura era ricoperta di sangue, alcuni schizzi avevano raggiunto il suo viso ed era ricoperto di sangue e sudore.
Quando vide Hinata spalancò gli occhi poi abbassò di nuovo lo sguardo, nascondendosi il viso dietro la frangia che si era allungata in quei sei mesi, il resto dei suoi capelli era tirato indietro in una crocchia disordinata.
“Non ho voglia di discutere”, gli disse solo.
Hinata non disse nulla, si avvicinò a Kageyama e in silenzio lo aiutò a togliersi l’armatura, smontando con attenzione ogni singolo pezzo e appoggiandolo delicatamente sul pavimento della stanza. Kageyama lo lasciò fare, guidandolo con le dita più esperte quando Hinata si bloccava in qualche passaggio. Kageyama rimase con indosso solo le mezza tunica che usava sotto l’armatura. Hinata non l’aveva mai visto senza armatura, aveva la pelle chiara e un fisico asciutto e scolpito. Lo prese poi per mano, la sua mano era ruvida per i calli del costante allenamento con la spada e calda. Era la prima volta che toccava Kageyama ed era abbastanza sicuro che stesse superando parecchi confini che un umano non avrebbe dovuto oltrepassare, ma in quel momento non gli interessava e, soprattutto, sentiva che quello di cui Kageyama aveva bisogno.
Hinata recuperò un catino d’acqua già calda, messa nella stanza di Kageyama da uno degli spiriti dell’aria probabilmente.
Si inginocchiò davanti a lui, bagnò una pezza nell’acqua calda e profumata di oli essenziali e cominciò a passarla delicatamente sulle gambe di Kageyama. Risalì piano per tutto il suo corpo, lavando con attenzione anche gli schizzi di sangue che erano riusciti a penetrare attraverso l’armatura di bronzo. Gli prese il viso tra le mani e glielo fece voltare di lato, per pulirgli con attenzione il collo. Hinata passava delicatamente la pezza, non volendo insistere sulla pelle. Hinata si alzò in piedi quando arrivò al viso di Kageyama, passò delicatamente la pezza sulle sue guance, sul suo viso.
Kageyama chiuse gli occhi e si rilassò al contatto, con la testa reclinata verso l’alto. Il suo viso, rilassato, appariva più delicato, illuminato dalla luce della luna.
Hinata, quando finì, fece un passo indietro per osservare il suo lavoro. Alla luce delle candele non riusciva a vedere molto, ma almeno il grosso sembrava pulito.
Hinata si avvicinò nuovamente a lui, gli sciolse i capelli e accarezzò delicatamente il viso di Kageyama. Kageyama aprì gli occhi, ancora la testa inclinata verso l’alto e guardò Hinata negli occhi. Hinata gli sorrise dolcemente.
“Dormi adesso”, disse.
Si allontanò da lui, ma Kageyama lo prese per il polso.
“Resta”
Hinata potè leggere la preghiera silenziosa nei suoi occhi. Kageyama non voleva rimanere solo.
Hinata annuì e si avvicinò a lui.
“Sdraiati”
Kageyama lo fece. Hinata si sedette accanto alla sua testa e gliela fece appoggiare alle sue gambe. Il respiro di Kageyama gli solleticava le cosce lasciate scoperte dalla tunica corta.
Hinata cominciò a passargli le mani tra i capelli.
“E’ stato terribile”, disse Kageyama. “Non ho mai visto un massacro di questo tipo. Sono dovuto scendere in campo alla fine”
Hinata non disse nulla, continuò ad accarezzargli i capelli, mentre Kageyama continuava a parlare di quello che aveva visto.
Non riusciva a capire come facesse a sopportare tutto quello, era un mistero per lui. Come riuscisse a vedere quelle cose e sopportare tutto da solo.
Hinata portò una mano a stringere la sua gamba. Piano piano cominciò a rilassarsi, Hinata sentì il suo respiro farsi più regolare.
Hinata, cercando di non disturbarlo, cercò di districarsi per allontanarsi e lasciarlo dormire, ma nel dormiveglia Kageyama emise un mugolio triste. Hinata lo coprì meglio con il lenzuolo e si infilò nel letto con lui.
Kageyama si appoggiò al suo petto e Hinata lo strinse.
Hinata stava cominciando a capire perchè lo facesse. Voleva solo costruirsi un posto dove tornare che gli permettesse di dimenticare gli orrori della guerra. Quanto doveva essere terribile per lui tornare a casa e vedere che era temuto esattamente come lo era in guerra? Vedere tutti che cercavano sempre di allontanarsi da lui?
Hinata lo strinse un po’ più forte, Kageyama ricambiò la stretta, facendo passare una mano sulla pancia di Hinata e si rilassò un po’ di più nell’abbraccio.
Hinata lo tenne stretto per tutta la notte, non riuscendo a prendere sonno con tutti quei pensieri che si arrovellavano per la testa.
Voleva essere lui, realizzò.
Voleva essere il porto sicuro per Kageyama.
Voleva aiutarlo.
Nessuno poteva sopportare tutto quello da solo.
Sì, decise Hinata. Sarebbe rimasto.