chasing_medea: (Default)
 

Titolo: count me in

Fandom: My hero academia

Missione: M3 – V

Parole: 1496

Rating: safe

Non è neanche mezzogiorno, e Katsuki ha già un chiodo saldamente conficcato nell’arco del suo sopracciglio sinistro.

“Non può farti male,” ringhiò spazientito all’indirizzo di Todoroki. Guardava la padella come se potesse saltare via dai fornelli e morderlo, agita le bacchette a distanza cercando di girare le uova come se avesse in mano una bacchetta magica in un capitolo tagliato di Harry Potter.

“Lo so,” risponde Todoroki a denti stretti.

Per la prima volta da quando tutta questa storia ha avuto inizio Katsuki sente una nota di irritazione nella sua voce solitamente piatta. Ha una ruga che gli solca la fronte, e riesce comunque a essere bello, e Katsuki deve fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per restare seduto al suo posto e non strappargli le bacchette dalle mani e prendere in mano la situazione prima che le uova si brucino. 

Todoroki prende il coraggio a due mani e si avvicina alla padella, ma ogni volta che versa un po’ delle uova sbattute dalla ciotola, lo sfrigolio lo fa sobbalzare e irrigidire. Katsuki vorrebbe essere infuriato con lui, ma conosce fin troppo bene la storia della sua famiglia per non capire da dove viene la sua reazione.

Il tamagoyaki che sta preparando sta venendo fuori con una forma sbilenca e vagamente bruciacchiato, ma l’espressione sul viso di Todoroki è concentrata, come se in quel momento non esistesse nulla al di fuori di quella padella. 

“Ungi di nuovo la padella,” istruisce Katsuki e Todoroki esegue. “Questo è l’ultimo strato. Devi arrotolarlo più stretto rispetto a quelli di prima, è quello che deve tenere tutto insieme.”

Todoroki annuisce, con lo sguardo fisso sulla padella, e prova a eseguire. Muove le bacchette in modo impacciato, e rompe lo strato d’uovo in più punti. Todoroki finisce di arrotolarlo e lo sposta sul piatto, poi lo taglia a fettine. Il risultato è sfilacciato e irregolare, ma lo serve comunque in due piatti e ne appoggia uno di fronte a Katsuki con sguardo preoccupato.

Katsuki assaggia. La parte centrale è quasi cruda, ma gli strati esterni sono più compatti, nonostante i numerosi buchi. Il risultato è completamente sciapo, ma nel complesso è commestibile. Guarda Todoroki e annuisce, e il modo in cui il viso di Todoroki si illumina è quasi adorabile.

Tutto era cominciato un paio di settimane prima, quando Todoroki gli aveva teso un’imboscata dopo una delle sue sessioni di allenamento del sabato mattina e gli aveva chiesto di insegnargli a cucinare. Katsuki si era opposto con tutte le sue forze, ma Todoroki aveva insistito. Katsuki era stato costretto a cedere quando Todoroki aveva innalzato un muro di ghiaccio per evitare che un detrito gli cadesse in testa durante una missione nel corso del loro tirocinio. E adesso si ritrovava incastrato in quelle lezioni segrete: la domenica mattina, nella cucina del dormitorio, prima che tutti si svegliassero. Con il senno di poi, forse avrebbe preferito il masso in testa.

Katsuki prende un altro boccone di quell'obbrobrio e finalmente fa la domanda che gli ronza in testa da quando tutta quella storia è cominciata. 

“Perché vuoi imparare a cucinare? Ti nutri di pacchetti di soba fredda!”

Todoroki avvampa di colpo, una fiammella gli scappa dall’orecchio – deve decisamente lavorare sul controllo del suo lato sinistro, il bastardo, prima che  possa sperare di sconfiggerlo al loro ultimo festival sportivo. Manca poco più di un mese, gli conviene sbrigarsi. Todoroki abbassa lo sguardo e con le bacchette gioca con il cibo che ha preparato. Biascica qualcosa che Katsuki non capisce.

“Eh?”

“Volevo fare una cosa carina per… Kirishima.”

Un sasso cade pesantemente nello stomaco di Katsuki e si accoccola lì saldamente. Ovvio che Todoroki abbia una cotta per Kirishima. E Kirishima – e Katsuki odia quanto sia percettivo in certi momenti – non sarebbe per niente opposto all’idea di uscire con Todoroki. Lo ha visto nel modo in cui si illumina quando Todoroki entra in una stanza, nell’attenzione che gli dedica ogni volta che apre bocca, nel modo in cui gli ronza intorno in continuazione. Dopotutto, chi sano di mente sceglierebbe lui quando c’è qualcuno come Todoroki in circolazione?

Cerca di ricomporsi prima di rispondere. “Stai facendo tutto questo per capelli di merda?”

Todoroki abbassa lo sguardo e annuisce in modo quasi impercettibile.

“Abbiamo cominciato a uscire da un paio di settimane, e lui fa sempre cose carine per me. Volevo fare qualcosa di carino per lui.”

Il peso del sasso nello stomaco di Katsuki triplica, e lui scoppia a ridere di una risata forzata. Non solo perché Todoroki potrebbe tranquillamente prendergli una bottiglietta d’acqua da un distributore perché Kirishima sia contento, ma anche perché sta totalmente sbagliando strada.

“Vieni con me,” dice alzandosi.

Tutto quello che vorrebbe fare è andare a nascondersi in camera, ma tre anni in quella classe lo hanno reso in qualche modo una persona migliore e, in fondo, quello che sta facendo Todoroki è una cosa carina, che Kirishima apprezzerebbe, e lui, nonostante tutto, vuole che Kirishima sia felice.

Insieme si avviano al supermercato vicino al dormitorio. Katsuki guida Todoroki fino al reparto carne. “Se vuoi fare una cosa buona per capelli di merda, prendi una qualsiasi bistecca da questo frigorifero e grigliala.”

Todoroki lo guarda perplesso, “Tutto qui?”

“Uno, grigliare una bistecca è un’arte. Due, sì. Tutto qui. Niente di troppo complicato.”

“Lo conosci bene.”

Già, e certe volte vorrebbe non fosse così. “Per mia sfortuna,” dice, attento a non rivelarsi troppo.

“Ti piace, non è così?”

Katsuki si paralizza nel mezzo della corsia frigorifero del market, poi si avvicina al banco frigo e comincia a far finta di analizzare le confezioni di carne esposte. Vorrebbe negarlo, ma ha senso a questo punto? Si limita ad annuire.

“Credo che anche tu gli piaccia.”

Come amico, certo. Katsuki lo sa.

“Intendo in senso romantico,” continua Todoroki, prendendo una confezione di carne e analizzando l’etichetta.

Katsuki non sta capendo. Todoroki non gli ha appena detto che stanno uscendo insieme? Che cosa sta succedendo.

“Mi sembra che tu abbia detto che state uscendo insieme,” risponde secco, appoggiando una confezione di carne e prendendone un altra.

“Sì,” e il modo in cui sorride nel dirlo è da diabete e costringe Katsuki a distogliere lo sguardo.

“Quindi questa conversazione non ha senso.”

Todoroki sembra pensarci per un momento. “Credo che Kirishima abbia talmente tanto da dare che una persona sola non sarebbe sufficiente a riceverlo. E non mi dispiacerebbe se l’altra persona fossi tu.”

Katsuki sente la terra mancargli sotto i piedi, ma in senso completamente nuovo rispetto a prima. Non riesce a credere a quanto sta sentendo. Credeva di non avere più possibilità, che tutto per lui fosse finito, e adesso… Adesso salta fuori che potrebbe ancora avere una possibilità?

Come se quella conversazione non fosse mai avvenuta, Todoroki sceglie una bistecca tra quelle del banco. Katsuki osserva la confezione, poi gliela strappa di mano e ne prende un altra.

“Andiamo.”

Tornano al dormitorio e nascondono la bistecca in frigorifero. Per il resto della mattina, Katsuki non riesce a concentrarsi su niente — figurarsi le ripetizioni di matematica che deve dare a Sero e Mina, si limita a colpirli in testa con il quaderno degli esercizi, ma non riesce a smettere di lanciare occhiate nervose a Todoroki e Kirishima, che studiano insieme seduti al tavolo della colazione.

Quando l’ora di pranzo si avvicina, Todoroki e Katsuki si alzano contemporaneamente, come a comando.

“Ehi, capelli di merda,” dice Katsuki. “Tra venti minuti in cucina.”

Todoroki e Katsuki si chiudono in cucina, ignorando il resto della classe che li guarda con fare sospettoso — come se sceglierebbe la cucina per attaccare briga con Todoroki, tch — e Katsuki spiega con pazienza a Todoroki come preparare la bistecca.

Il risultato è discreto, leggermente più cotta di quanto l’avrebbe fatta Katsuki, ma comunque accettabile.

“Non dico che devi parlare con Kirishima,” inizia Todoroki. “Ma se volessi farlo, posso lasciarvi soli.”

Katsuki non ha ancora fatto pace con quello che sta succedendo, ma c’è una voce dentro di lui che gli dice di cavalcare l’onda dell’assurdità e non far passare quel momento. Si sente tremare al solo pensiero, ma sa anche che più andrà avanti più sarà difficile: via il dente, via il dolore, no?

“Resta,” dice quasi forzandosi. “Questa cosa riguarda anche te, in fondo.” La verità è che non vuole restare solo, non vuole affrontare la cosa da solo, e in queste settimane di frequentazione ha scoperto che la presenza di Todoroki ha un effetto calmante su di lui.

Todoroki annuisce.

Esattamente venti minuti dopo, puntualissimo, Kirishima entra in cucina. Il suo volto si illumina quando Todoroki gli passa la bistecca e gli dice che l’ha preparata per lui. Katsuki li guarda, come se fosse un estraneo. Poi Todoroki gli lancia un’occhiata rassicurante, accogliente e Katsuki, in qualche modo, si sente improvvisamente parte di quello strano triangolo.

Prende un respiro profondo, con lo stomaco stretto come mai prima, neanche prima di un combattimento è così nervoso, e si siede di fronte a Kirishima.

Ha un discorso da fare. 


chasing_medea: (Default)
 

Titolo: love you too

Fandom: My hero academia

Missione: M3 – U

Parole: 2268

Rating: safe



Il locale che avevano scelto per la cena era molto carino. Somigliava più a un pub che a un ristorante, ma l’aveva scelto Bakugou perché ”se devo venire a cena con voi, devo almeno rimediarci una buona cena”, e nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione la sua opinione quando si trattava di cibo e ristoranti.

Mina e Kirishima sono già seduti al tavolo. Denki li raggiunge e Kirishima lo saluta con un abbraccio e ordina una birra anche per lui mentre aspettano. Denki è particolarmente contento di essere qui stasera, con i loro lavori era da un po’ che non riuscivano a vedersi per una cena e organizzare quella era stato una partita a Tetris.

Sero arriva poco dopo, e ora manca solo Bakugou. Conoscendolo stava ricontrollando che tutte le virgole nei suoi rapporti fossero al posto giusto. Mentre aspettano, Sero racconta della missione all’estero da cui è appena tornato. 

Quando Bakugou finalmente arriva non è da solo. Con lui c’è un ragazzo alto, dalle spalle larghe e una massa di capelli viola.

”Shinsou,” mormora Denki.

”Ho trovato un randagio,” dice Bakugou sedendosi al tavolo.

”Scusate l’intrusione,” dice Shinsou, sedendosi tra lui e Denki.

Dal tavolo si alza un coro di ”benvenuto” e ”nessun problema” e ”più siamo meglio è”, ma Denki non riesce a spiccicare una parola. Non si vedono dal diploma, circa nove mesi prima, e Shinsou se possibile è ancora più bello di quanto ricordasse. Non si incontravano mai durante le ronde perché Shinsou era andato a lavorare per un'agenzia specializzata in operazioni sotto copertura. Gli unici contatti tra di loro si erano limitati al continuo scambio di meme che andava avanti da quando Shinsou era stato trasferito nella loro sezione, e ritrovarselo davanti adesso era… intenso.

”Come va il lavoro?” Chiede Kirishima.

E Shinsou inizia a raccontare quanto può, la sua voce è bassa e suadente e Denki passerebbe volentieri l’intera serata ad ascoltare solo lui. 

Ordinano, mangiano, la serata procede bene. Denki partecipa alla conversazione, ma ha sempre un orecchio teso verso Shinsou e gli lancia occhiate ogni volta che può.

Quando la serata giunge al termine, è troppo presto. Denki non vuole ancora lasciarlo andare. 

”Da che parte vai?” Chiede a Shinsou. È la prima volta che gli rivolge la parola direttamente nel corso della serata.

”Abito di là,” e indica la stessa direzione in cui deve andare Denki.

”Facciamo un pezzo di strada insieme?” 

Shinshou sorride appena, ”Volentieri.” 

Denki sente il suo petto sciogliersi. Bene, la cotta che aveva per lui non è passata a quanto pare, buono a sapersi.

Si avviano in silenzio. È Shinsou a parlare.

”Pensavo non volessi parlarmi.”

”Mi sembrava avessi già il tuo bel da fare con l’attenzione di tutti addosso,” risponde Denki, una mezza verità. Sa che stare al centro dell’attenzione lo stanca, ma è anche vero che ha passato la serata a cercare di capire come parlargli senza rendersi completamente ridicolo. 

”Vero,” commenta Shinsou. ”Ma mi ha fatto piacere venire. Ultimamente, con il lavoro, quando non sono in ufficio o in missione gli unici esseri viventi che vedo sono i miei gatti.”

Denki scoppia a ridere. Ovvio che appena va a vivere da solo si prende i gatti, ci avrebbe scommesso.

”Quanti me hai?”

Shinsou parte allora a descrivere i suoi gatti, con la voce più entusiasta che Denki gli abbia mai sentito — non è difficile da riconoscere se lo si conosce un po’.

Quando arrivano all’incrocio in cui si devono separare è ancora troppo presto per Denki, ma non ha più scuse. La tensione nell’aria è forte quando si salutano.


Denki rientra a casa e trova le luci spente, deve essere andata già a letto. La trova sotto le coperte a leggere un libro. Senza neanche cambiarsi, Denki si butta sul letto e appoggia la testa sulle sue gambe. Kyoka chiude il libro e passa le mani tra i suoi capelli.

”Yaoyorozu è già andata via?” Chiede Denki.

”Poco dopo cena, ha il turno presto domani mattina.”

”Come è andato l’appuntamento?”

Kyoka arrossisce appena, in quel modo che Denki trova sempre adorabile, e lui ha tutte le risposte di cui aveva bisogno. Le sorride, contento per lei.

”La cena?”

”Tutto bene.”

”Ma…?”

Denki si copre il viso con le mani, facendo finalmente uscire il quindicenne alla prima cotta dentro di lui che era riuscito a trattenere per tutta la serata. ”C’era Shinsou.”

Kyoka ride. ”Ancora?”

In risposta, Denki geme. ”Dovevi vederlo…”

Kyoka si china su di lui e lo bacia. ”Chiedigli di uscire.”

”Dici?”

”Sì. Secondo me accetta.”

Denki si copre di nuovo il viso con le mani. ”Non so come,” ammette.

”Troveremo un modo.”

E sapendo di avere lei dalla sua parte, Denki ci crede.


”Devi solo chiedergli di pranzare insieme!” dice Kyoka spazientita.

Denki, seduto al tavolo della colazione, continua a guardare la conversazione con Shinshou. L’ultimo messaggio è una foto dei gatti di Shinsou che ha ricevuto due giorni prima, la mattina dopo la cena. Sono passati tre giorni, e ancora non ha trovato il modo di chiedergli di uscire, nonostante le insistenze di Kyoka e il supporto di Yaoyorozu — che ovviamente aveva saputo tutto il giorno dopo e era entrata anche lei a far parte del piano, anche se le sue idee, fino adesso, si sono dimostrate piuttosto… infattibili.

Kyoka prende un sorso di caffè e sospira spazientita, strappa il telefono dalle mani di Denki, scrive qualcosa e glielo restituisce. 

Adesso, la conversazione con Shinsou si era arricchita di un nuovo messaggio: Hey. Sei libero per pranzo?

Pranzo, bene, meno impegnativo della cena. Denki lancia uno sguardo riconoscente a Kyoka e mette il telefono in tasca, sicuro che Shinsou ci metterà un po’ a rispondere come al solito e esce per il suo turno.

La risposta gli arriva proprio durante la pausa pranzo. Sono libero adesso, e non sono lontano dalla tua agenzia. Buoni posti in zona?

Denki andò nel panico. Sì, il pranzo andava bene, ma così è troppo presto, ha troppo poco preavviso, che deve fare? Dove possono andare? E deve rispondere al messaggio! Preso dal panico, chiama Bakugou, che risponde al terzo squillo.

“Spero che tu sia in punto di morte.”

“Quasi. Qual è un buon posto dove pranzare vicino alla mia agenzia?” 

Bakugou sospira pesantemente, probabilmente si sta strusciando gli occhi in quel momento e incasinando l’eye-liner che continua a sostenere di non usare, ma gli dà il nome di un posto, e subito Denki chiude la chiamata e dà il nome a Shinsou. Raggiunge anche lui il locale, prende il tavolo e mentre aspetta Shinsou usa lo schermo del telefono come specchio per sistemarsi i capelli. Era sempre così nervoso prima di un appuntamento? Non ricordava di essere stato così nervoso prima di uscire con Kyoka. Ma poi quello si poteva considerare un appuntamento? 

Shinsou arriva poco dopo e subito lo raggiunge al tavolo. La conversazione all'inizio è stentata, ma presto si sciolgono e la situazione migliora. Denki non riesce a smettere di guardare le sue labbra mentre parla, e ha la vaga sensazione che per Shinsou sia lo stesso.

La fine della pausa arriva, ancora una volta, troppo presto. Shinsou è interessante e divertente, e Denki vuole passare più tempo con lui. Ha bisogno di inventarsi qualcosa e in fretta.

“Kyoka fa un concerto venerdì sera,” sputa fuori, e gli sembra una buona idea. Shinshou e Kyoka hanno sempre avuto gusti musicali simili, e Denki sa che a lui non dispiace la sua musica. ”Se ti va di passare,” aggiunge come un ripensamento.

Shinsou sorride, appena accennato e dolce, e il cuore di Denki salta un battito – avere una cotta è così complicato.

“Volentieri,” dice Shinsou. ”Mi scrivi i dettagli?”

“Certo.”

Pagano il pranzo e Shinsou esce dal ristorante. Denki lo guarda andare via con aria sognante.


Kyoka era sempre splendida quando era sul palco. Denki non riesce a smettere di sorridere mentre la guarda dal parterre. È come un pesce nell'acqua, la gioia che sprizza mentre suonava la rende ancora più bella di quanto non sia di solito. 

A giudicare dal modo in cui Yaoyorozu, poco distante da lui, tiene gli occhi fissi sul palco deve essere d'accordo con lui. Le mancano solo gli occhi a cuore. Sono veramente belle insieme, nessun dubbio al riguardo, e quella relazione aveva reso Kyoka così felice. 

Una mano si appoggia sulla spalla di Denki e il viso di Shinsou compare nel suo campo visivo. Ha in mano due birre e ne porge una a Denki, poi si mette lì accanto, muove la testa a tempo di musica. 

Ha il viso rilassato, e un lieve sorriso sulle labbra. La giacca di pelle che indossa gli fascia alla perfezione le spalle larghe. 

Mentre lo fissa, Shinsou si volta verso di lui. Lo fissa dritto negli occhi e la tensione tra loro è palpabile nella penombra del locale. La canzone finisce e ne parte un'altra, una delle preferite di Denki del repertorio di Kyoka, una ballata che aveva scritto subito prima del diploma per salutare la classe a modo suo.

Denki sente la tensione crescere, l'aria è elettrica, il volto di Shinsou sempre più vicino. Ed è allora che Denki viene preso dal panico, il battito del suo cuore impazzisce e si sente sudare freddo. 

Ha sempre saputo di essere bi, ma non ha mai fatto nulla prima con un ragazzo. Non è pronto, non se la sente e forse non se la sentirà mai.

Denki fa un passo indietro e fa appena in tempo a vedere la delusione sul volto di Shinsou prima di allontanarsi da lì. 

Lo rivede ancora una volta nel corso della serata, dopo il concerto, mentre ha la testa nascosta nella spalla di Kyoka: con la coda dell'occhio lo vede uscire dal locale, ma non fa nessuna mossa per fermarlo.


Nel fine settimana non lavorano, ma sono a disposizione – pronti a scattare se dovesse esserci un emergenza. Di solito sono i momenti che lui e Kyoka umano per stare un po' insieme quando di solito riescono a malapena a vedersi durante la settimana.

Denki è saldamente intenzionato a passare tutto il fine settimana a letto, con le coperte sopra la testa a tenda. Non riesce a credere che ha bruciato ogni possibilità che aveva con Shinsou la seconda volta. La prima volta, al liceo, non aveva avuto neanche il coraggio per fare il primo passo, ma questa volta stava andando meglio – almeno il primo passo l'aveva fatto –, credeva davvero di farcela, e aveva rovinato tutto.

Kyoka si stende sul letto accanto a lui. ”Hai provato a scrivergli?”

”Non mi ha risposto.”

”Riprovaci, allora.” 

”Mi odierebbe ancora di più.”

”Non credo ti odi.”

Denki era abbastanza convinto di sì, ma non vuole dirlo ad alta voce. ”Dovresti andare al tuo brunch con Yaoyorozu,” dice invece.

“Non voglio lasciarti mentre stai così.”

“Non è un problema, non ho intenzione di muovermi da qui.”

Kyoka si alza dal letto. Denki è convinto che stia andando a vestirsi, ma torna dopo poco e si stendere di nuovo sul letto. ”Ho chiesto a Momo di portare qui il brunch,” dice. ”Ma non puoi mangiare a letto, quindi ti devi alzare.”

“Le hai detto di prendere i French toast?”

“Sì,” risponde lei con un sorriso.


“Diglielo,” dice Yayorozu dopo aver sentito tutta la storia. Hanno trovato un compromesso e stanno mangiando il brunch sul divano.

“Digli perché ti sei innervosito così, sono sicura che non ce l'avrà con te.”

“Ma se non mi vuole parlare è complicato, e non so né dove vive, né dove sia la sua agenzia.”

“Allora mandargli un messaggio.”

Denki si convince a mandare un messaggio, ma anche stavolta non riceve risposta.


Ci vogliono altri due giorni perché Shinsou si decida a rispondergli. Accetta di vederlo al parco vicino all'agenzia di Denki.

Quando Denki arriva, Shinsou è già lì, seduto su una panchina. Lo raggiunge e gli si siede vicino.

C'è un momento di silenzio, e quando finalmente Denki si decide a parlare Shinsou lo batte sul tempo.

“Non sapevo di Jirou,” dice. ”Mi dispiace. Sono stato praticamente tutto il tempo sotto copertura, fuori dal paese, e non sapevo vi eravate messi insieme sul serio dopo il diploma.”

Denki non riesce a crederci. Quindi è quello che pensa? Denki ha bisogno di chiarire la situazione subito. E allora comincia a parlare, e una volta cominciato non riesce più a fermarsi. Gli racconta della sua relazione con Kyoka, di come hanno deciso di aprirla, della relazione di Kyoka con Momo, e di come capirebbe se una relazione del genere non facesse al caso suo. E arriva poi alla parte più spinosa: il suo essere bisessuale, ma non avere mai avuto il coraggio di provarci sul serio, e gli parla anche della sua cotta per lui, dal liceo a adesso, di come adesso almeno abbia avuto…

Le labbra di Shinsou sono sulle sue. Sa di caffè e cannella, e sono morbide e calde. Denki vuole essere interrotto nei suoi attacchi di parlantina sempre così in futuro. In quel momento, tutto è perfetto.


Kyoka apre la porta e si ritrova davanti Shinsou con il pugno alzato in procinto di bussare. 

“Sei in perfetto orario,” commenta lei, sistemandosi il cappello sulla testa. Esce dalla porta mentre Shinsou entra.

“Fate i bravi,” urla dalla porta.

“Divertiti con Yaoyorozu,” le risponde Denki dal divano. 

Shinsou chiude la porta dietro di lei e raggiunge Denki sul divano, lo saluta con un bacio. Sono ancora nella fase iniziale, un po' di imbarazzo ma tanta pienezza nel petto. 

“Che abbiamo in programma per stasera?” chiede Shinsou.

“Pensavo pizza e videogiochi.”

Shinsou sorride. “Mi piace. Basta che non ti lamenti se perdi sempre.”

Denki ride e lo bacia di nuovo. Si prospetta davvero una bella serata. 


let it burn

Mar. 1st, 2023 02:52 pm
chasing_medea: (Default)
 

Titolo: let it burn 

Fandom: My Hero Academia

Missione: M2 --carboni ardenti

Parole: 1145

Rating: safe


Il campo estivo era arrivato all'ultima sera. Dopo il disastro del primo anno e il secondo anno passato a ricostruire la città distrutta, essere riusciti ad arrivare alla fine di quel campo senza incidenti mortali sembrava incredibile.

La classe 3-A era riunita intorno al fuoco. Le fiamme avevano cominciato a perdere intensità, tra poco non sarebbero rimaste che le braci, ma nessuno lo aveva ravvivato e, allo stesso tempo, nessuno aveva accennato ad alzarsi per andare finalmente a dormire, quasi ci fosse un desiderio unico in tutti di prolungare quanto più possibile l'esperienza – una delle poche normali esperienze da liceali che erano riusciti a fare nel corso di quei tre anni, e proprio adesso che stavano per finire e loro si sarebbero separati, ognuno per andare per la sua strada.

"Ehi, Todoroki," cominciò Kaminari. "Tu che sei resistente al fuoco saresti capace di fare quella cosa di camminare sui carboni ardenti."

La domanda risvegliò l'interesse delle persone intorno a Kaminari e, a poco a poco, si espanse come increspature nell'acqua a tutta la classe.

Shoto ci rifletté per un momento, non ricordava di averlo mai fatto, ma in effetti la sua pelle aveva una maggiore resistenza alle ustioni rispetto a quella degli altri. "Non lo so," rispose. "Ma possiamo provare."

Iida scattò in piedi, in quanto capoclasse non poteva accettare che un suo compagno di classe rischiasse di farsi male. Midoriya sembrava allo stesso tempo preoccupato e curioso. Shoto guardò Kaminari mortificato, avrebbe voluto soddisfare la curiosità dell'amico, ma con l'opposizione del capoclasse non era possibile: Iida lo avrebbe trascinato di peso via di lì se fosse stato necessario, non c'erano dubbi al riguardo. 

"Forse puoi provare su un dito della mano?" propose Midoriya. Con la sua storia, non era poi così sorprendente che considerasse una cosa da niente sacrificare un dito, e anche a Shoto sembrò un compromesso accettabile. Guardò Iida per conferma. Aveva la stessa espressione che ogni tanto appariva sul viso di Aizawa, quella che ricordava un padre rassegnato e esasperato davanti alle bravate dei figli, ma non si oppose

Shoto annuì e si avvicinò alle braci, in quei punti in cui il fuoco si era già estinto. 

"Forse potresti provare con entrambe le mani?" suggerì Midoriya. Per vedere se il tuo lato freddo è caldo reagiscono diversamente?" Aveva già pronto in mano il suo quaderno degli appunti e il viso corrucciato in un'espressione concentrata. Borbotta tra sé, ma ormai ci erano tutti così abituati che nessuno ci faceva più caso.

Shoto appoggiò un dito della mano destra e uno della mano sinistra sulle braci ancora incandescenti. Non sentì nulla, "Non è così male," disse. "La sinistra non sente quasi nulla," disse per soddisfare la curiosità di Midoriya. "La destra invece sente di più il calore." Midoriya chinò subito la testa per scrivere. 

In effetti l'esperimento era curioso anche per lui, non aveva mai considerato quanto la sua pelle influisse e fosse influenzata dai suoi quirk – considerando la storia di sui fratello Davi forse avrebbe dovuto farsele prima quelle domande. 

Kaminari si era avvicinato a lui e guardava con attenzione rapita le dita di Shoto che affondavano nelle braci, intorno a loro si era riunito un capanello di altri compagni di classe altrettanto curiosi. 

Più passavano i secondi più il calore si insinuava sotto la pelle, la sua mano sinistra sentiva un leggero fastidio, mentre la destra cominciava a bruciare.

"Quanto a lungo puoi resistere?" Chiese Kaminari. "E quanto sono effettivamente calde le braci?"

Kaminari provò a mettere un dito accanto a quello di Shoto, ma la sua mano fu spazzata via con un colpo secco da un'altra mano.

Bakugou si era allontanato un momento, ma adesso era tornato. "Non vi si può lasciare soli un momento," mormorò. 

Con un gesto altrettanto secco afferrò Shoto per il polso e lo trascinò via dal fuoco, via dal gruppo, fino alla fontanella dall'altro lato del cortile. Shoto faticava a stargli dietro.

Bakugou aprì l'acqua e gli ficcò entrambe le man sotto il getto fresco. Poi lo trascinò dentro casa fino al dormitorio dei ragazzi. Lo fece sedere sul suo futon e prese un tubetto di pomata dalla sua valigia prima di tornare da lui.

Gentilmente, prese un po' di prodotto e lo applicò sulla punta delle dita di Shoto. Per tutto il tempo continuò a borbottare sulla stupidità di Kaminari che si era fritto il cervello con il suo stupido quirk, sulla stupidità dello stupido Deku, sulla stupidità di Todoroki che faceva cose stupide.

"Si può sapere perché gli sei andato dietro?"

"Era un esperimento."

"Un esperimento," ripetè Bakugou, basito. Tirò fuori anche delle bende, le imbevve di pomata e le avvolse intorno alle dita di Shoto. In realtà non faceva male, l'acqua fresca era stata più che sufficiente per alleviare la leggera sensazione di calore che ancora sentiva sotto la pelle, ma Shoto non voleva interrompere quel contatto gentile.

Era strano, Shoto non aveva mai pensato che Bakugou potesse muoversi con tanta delicatezza. Eleganza, sì – per quanto i suoi movimenti sembrassero bruschi, avevano un'eleganza profonda, tale che Shoto non si sarebbe sorpreso se Bakugou avesse confessato di aver studiato danza o qualcosa di simile. E Shoto non sapeva nemmeno che le sue mani fossero così morbide. Tra il suo quirk e il fatto che cucinasse, Shoto aveva sempre immaginato che le sue mani fossero ruvide.

…aveva immaginato le mani di Bakugou? Sì, lo aveva fatto più di una volta. E aveva immaginato anche come potessero essere le sue labbra. E si rese conto in quel momento di non averlo mai fatto con nessun altro dei suoi amici. E forse non era poi così normale immaginare come fossero le labbra dei suoi amici in generale.

Si ricordò di una cosa che gli aveva chiesto Uraraka, qualche tempo prima, una sera che Kaminari e Sero avevano trovato il modo di far entrare di soppiatto delle birre nel dormitorio: "Secondo te le labbra di Izuku sono morbide?" Poi era arrossita come se le fosse scoppiato qualcosa sottopelle e si era nascosta il viso tra le mani.

Shoto non aveva capito la domanda, all'epoca – era lì che aveva cominciato a farsi quella stessa domanda su Bakugou? –, ma tutti nel dormitorio sapevano dei sentimenti di Uraraka per Midoriya, anche Shoto che di queste cose non capiva niente. 

E Shoto allora collegò i puntini. Un calore nuovo si impossessò di lui, si sentiva il volto in fiamme.

"Che ti prende adesso?" chiese Bakugou brusco, ma il tocco delle sue mani restò delicato.

Shoto voleva nascondersi il viso bollente tra le mani, ma erano impegnate e non voleva interrompere quel contatto. Abbassò la testa e lasciò che i capelli ormai lunghi gli nascondessero il viso. Scosse la testa.

Il calore che sentiva adesso invadergli il corpo non aveva nulla a che fare con quello dei carboni ardenti. 


chasing_medea: (Default)
 

Titolo: Right beside me

Fandom: My Hero Academia 

Missione: M1 – Rifugio alla fine del mondo 

Parole: 601

Rating: safe


Katsuki e il resto della classe si identificano all’entrata e aspettano che le porte si aprano. Riuscire a trovare Deku e convincerlo a tornare al rifugio non è stato facile, ma adesso comincia la parte davvero difficile: convincere le persone rifugiate all’interno della nuova versione della UA che averlo lì non costituisce un pericolo, che le difese possono reggere. 

E parlare con le persone non è mai stato il suo forte, lo lascia esausto e davanti alla loro paura e incertezza non fa che sentirsi inutile, una sensazione che lo divora dall’interno. 

Le porte si aprono e Katsuki sente almeno una parte dell’ansia che attanaglia tutti in questi giorni scivolare via. All’interno, la UA non ha più nulla della scuola in cui è entrato un anno prima – sembra una vita; nuovi edifici sono sorti ovunque ci fosse spazio per accogliere i civili che all’interno hanno trovato riparo.

Come previsto, la loro reazione alla vista di Deku è aggressiva, ma Faccia Tonda riesce a intervenire e calmare gli animi in qualche modo: un piccolo miracolo in qualla giornata così pesante.

Il combattimento non è stato difficile, non erano altro che civili spaventati, in fondo, ma Katuski si sente svuotato di energie, attanagliato da una stanchezza più profonda di quella degli allenamenti, una stanchezza emotiva che gli fa sentire il bisogno di andarsi a rifugiare nella sua stanza e non parlare con nessuno per qualche ora.

Mentre il resto della classe si affolla intorno a Deku, Katsuki si dirige verso il dormitorio, sperando di non incontrare nessuno. 

Entrare nel dormitorio è sempre un’esperienza surreale: all’apparenza è tutto come prima, ma dove prima c’era costantemente rumore – che fosse qualcuno che ripassava, che cucinava o solo che si rilassava nella sala comune – adesso c’è solo silenzio. Anche quando c'è gente, parlano piano, per paura di disturbare i compagni che sono appena tornati da una ronda o che, miracolosamente, stanno riuscendo a racimolare qualche ora di sonno. 

Sale fino alla sua stanza: dovrebbe farsi una doccia, ma può aspettare.  Sul suo letto c’è Todoroki, è seduto con la schiena appoggiata al muro e sfoglia distrattamente le pagine di uno dei manga di Katsuki. Sarebbe una scena normale non avesse ancora indosso il suo costume di eroe, pronto a scattare al minimo accenno di pericolo – tutti i loro costumi ultimamente sono sgualciti, mezzi rovinati, non c'è semplicemente il tempo di ripararli tra una ronda e l'altra, e anche le scorte si esauriscono in fretta.

Katsuki non è davvero sorpreso di trovarlo lì. Non sa quando sia cominciato, ma Todoroki è diventato sempre più frequente da quando la guerra è cominciata, ma Katsuki era convinto che sarebbe rimasto con Deku – adesso che è tornato probabilmente quelle visite si sarebbero ridotte. Meglio così, non è che gli facessero piacere o altro. 

Katsuki abbandona i suoi guantoni in un angolo della stanza, poi, come non avesse il pieno controllo del suo corpo, si butta sul letto e appoggia la testa sulle gambe di Todoroki.

Todoroki sobbalza, – e Katsuki per primo è sorpreso dal suo gesto – ma non si muove. Katsuki chiude gli occhi, odia quanto quel calore, quel contatto siano confortanti.

Poi Katsuki sente una mano che comincia ad accarezzargli la testa, passando tra i capelli. 

“Sei stato bravo, oggi.”

Il petto e lo stomaco di Katsuki si riscaldano al complimento, ma di un calore che non brucia, come un camino acceso da ore che ha raggiunto la temperatura perfetta, diversa dalla vampata improvvisa che di solito accendono in lui i complimenti. 

Adesso che Deku è tornato, Katsuki non sa quanto durerà qualunque cosa ci sia tra di loro, ma per stasera va bene così.


chasing_medea: (Default)
 

Titolo: Be Right Back

Fandom: Spy x Family

Missione: M2 – “Sparirò, ma tu promettimi che potrò sempre ritornare da te”

Parole: 1562

Rating: safe


L’incontro era stato fissato in una tavola calda poco distante dall’ospedale in cui Loid Forger lavorava. 

Era l’ora di pranzo e il locale era pieno. Loid si mise pazientemente in fila, ordinò il suo pranzo e con il suo vassoio si diresse verso il cortile interno. Tutti i tavoli erano occupati, era una bella giornata di sole, e molti avevano scelto di mangiare all’aria aperta. Il chiacchiericcio riempiva l’aria – parlavano di lavoro, di figli, dei loro capi, dell’ultima puntata di una serie tv, preoccupazioni mondane di esistenze serene. 

Era per preservare quella serenità che da anni metteva ogni giorno a rischio la sua vita. 

Di Handler non c’era traccia da nessuna parte. A un tavolino, una donna sola mangiava il suo pranzo tenendo aperta davanti a sé la pagina culturale del giornale. Loid le si avvicinò, il giornale annunciava che un’orchestra rinomata avrebbe in pochi giorni debuttato nel teatro della città, forse poteva valere la pena di portarci Anya: aveva perso le speranze di farla interessare agli intrattenimenti per la buona società come i suoi compagni di classe, ma se avesse invitato anche la sua amica Becky forse avrebbe giovato all’immagine della loro famiglia.

Twilight sfoderò il sorriso gentile di Loid Forger, “Questo posto è occupato?”

La donna alzò a malapena gli occhi dal giornale, diede un’occhiata intorno poi disse, “Può sedersi, ho quasi finito.”

Indossava un vestito a fiori e aveva corti capelli castani. Non scambiarono una parola, la donna continuò a mangiare il suo pranzo e a sfogliare pigramente le pagine del giornale a un ritmo regolare. A uno sguardo esterno sarebbero sembrati solamente due estranei che condividevano un tavolo per cause di forza maggiore. 

Quando finì, lo richiuse e si alzò, con un cenno del capo salutò Loid e andò via. Loid tirò fuori dalla borsa un libro e lesse mentre mangiava. Una volta finito appoggiò il libro sul giornale e infilò entrambi nella borsa, prima di tornare all’ospedale.

Aspettò di essere solo nel suo studio prima di ripescare il giornale dalla sua borsa e tirare fuori il fascicolo nascosto al suo interno. Si sedette alla scrivania e cominciò a studiare i dettagli della sua prossima missione. Twilight arricciò le sopracciglia mentre leggeva: un suo vecchio nemico era tornato in circolazione dopo quattro anni di latitanza, e Twilight era l’unico in grado di occuparsene. Gli era già sfuggito una volta, non avrebbe fatto di nuovo lo stesso errore. 

Il concerto al teatro avrebbe dovuto aspettare. 


Loid aprì la porta di casa e si trovò davanti il caos. Intorno al tavolo della cucina, Yor inseguiva Anya che inseguiva Bond in quella che sembrava a tutti gli effetti una fuga dall’ora del bagno.

“Loid!” Yor frenò la sua corsa all’improvviso e arrossì, come imbarazzata di essere stata sorpresa in un momento del genere. Bond e Anya le finirono addosso e lei senza battere ciglio li sollevò entrambi per la collottola, come se non pesassero niente.

“Porto Anya a fare il bagno e poi preparo la cena,” disse.

Anya sbiancò, e anche Bond lo avrebbe fatto se avesse potuto – dopotutto era sempre nella sua ciotola che Anya faceva sparire gli esperimenti culinari di Yor. Loid non poteva dar loro torto. 

“Posso pensarci io,” disse Loid. “Fai pure con calma. E tu,” si rivolse a Anya, “non fare troppi capricci.”

Anya tirò un sospiro di sollievo chiaramente udibile, e lasciò che Yor la portasse in bagno senza fare storie, con Bond alle calcagna, mentre Loid si tirava su le maniche e si metteva ai fornelli.

Avrebbe dovuto parlare con Yor. Aveva già un piano in mente: le avrebbe parlato dopo che Anya fosse andata a letto, aveva passato la giornata a studiare i dettagli della sua storia per essere pronto a rispondere a qualunque domanda potesse saltare fuori. Ma se le cose non fossero andate bene, avrebbe rinunciato alla missione. Voleva prendere quel criminale, ma non poteva mettere a rischio l’Operazione Strix. 

La cena trascorse tranquilla. Anya raccontò della sua giornata a scuola, ma soprattutto commentò l’ultimo episodio Spy Wars, con tanto di effetti sonori e messa in scena dei combattimenti con Bond nel ruolo del nemico. Quindi era questa la vita delle persone normali? Una famiglia seduta intorno a un tavolo che si racconta gli eventi della giornata? Non avrebbe potuto mai appartenergli, non con il suo lavoro: non avrebbe mai potuto condividere nulla con qualcuno, e pochi nel suo campo avevano la possibilità di andare in pensione e assaggiare che cosa fosse una vita normale.

Dopo cena, Anya andò a dormire e Yor si sedette sul divano a sorseggiare una tazza di tè. Loid le si sedette accanto. 

“C’è una cosa di cui vorrei parlare con te,” le disse.

Yor si rivolse a lui con un sorriso, “Che succede?”

“Mi hanno offerto un lavoro, ma dovrei stare via di casa per un paio di mesi minimo.”

L’espressione di Yor si incupì, “Oh. Dove?”

Loid si è preparato per questo momento, ha raccolto tutte le informazioni che ha potuto. “Sull’isola di Dougherty. Vogliono aggiungere il reparto psichiatrico nel loro ospedale, e mi hanno chiesto di sovraintendere le operazioni. Ma l’isola è molto piccola, e non ha un buon sistema di comunicazione. Non sarei in grado di contattarvi.” 

Per la riuscita dell’operazione, sarebbe dovuto scomparire totalmente. Non era necessario menzionare che Yor e Anya sarebbero state comunque sempre tenute sott’occhio dall’organizzazione, e che se fosse loro successo qualcosa Twilight sarebbe stato informato subito.

“Sembra una cosa importante,” disse Yor. “Dovresti andare. Anche se mi mancherà vedere Anya tutti i giorni, in fondo è due mesi non sono così lunghi.”

Bene, adesso deve solo giocare la carta del padre affranto. “Di questo volevo parlarti. Anya non può venire con me, lì sarei molto impegnato e comunque non può perdere due mesi di scuola. Mi dispiace caricarti di questa responsabilità, ma potresti occuparti di lei?”

Con suo sommo orrore, gli occhi di Yor si riempirono di lacrime. E lui non era preparato per questo, doveva inventarsi qualcosa e alla svelta. Nel suo lavoro si era trovato spesso a confrontarsi con donne che piangevano per i motivi più disparati, non poteva essere così difficile: doveva solo capire quale fosse la parte giusta. Un marito affettuoso? Ma erano davvero sposati. Un amico? Ma non era sicuro che lui e Yor potessero definirsi amici. Odiava non sapere cosa fare, e odiava ancora di più il fatto di essersi trovato in quella situazione più di una volta da quando aveva messo su quella strampalata famiglia arrangiata.

“Non preoccuparti,” gli disse Yor asciugandosi una lacrima con la manica del vestito. Il suo volto si aprì in un sorriso. “Sono solo felice che ti fidi di me da affidarmi Anya per questi due mesi. Mi fa sentire veramente  parte di questa famiglia.”

Loid le prese una mano tra le sue e il volto di Yor avvampò come quando era ubriaca. “Tu sei parte di questa famiglia. E non ti ringrazierò mai abbastanza per tutto quello che fai e hai fatto per Anya.”

Yor si asciugò un’altra lacrima, ma il suo sorriso si allargò. “Lo faccio con piacere.”


Dirlo a Anya non fu altrettanto facile. Prima lo guardò con sguardo affilato, come se avesse avuto una di quelle strane intuizioni che aveva ogni tanto, poi si aggrappò alle sue gambe, “Voglio venire con te.”

Loid le spiegò con calma che non poteva, perché aveva la scuola, che sarebbe rimasta con Yor. 

“Non mi fate mai fare niente di divertente.”

“Non sarà divertente. Devo solo stare lì tutto il giorno a spiegare il mio lavoro a un sacco di persone, e lì non trasmettono neanche Spy Wars. E non sono neanche sicuro che abbiano le arachidi.”

Anya sembrò soppesare i pro e i contro, ma intervenne Yor, “Ci divertiremo molto di più qui, io e te. Possiamo andare ad allenarci al parco, e andare a fare le passeggiate con Bond.”

Anya mise il broncio e guardò attentamente Bond, come se stessero comunicando in un qualche linguaggio segreto, poi annuì. “Va bene, puoi andare,” concesse, lasciando andare la gamba di Loid.

“La ringrazio per la gentile concessione, Miss Anya,” ridacchiò lui, e andò a preparare i bagagli.

Quando uscì dalla sua stanza, Anya e Yor si stavano preparando per andare al parco con Bond; è sabato e Anya dovrebbe fare i compiti, ma Loid può lasciare correre per un giorno: è sicuro che Yor, a modo suo, abbia la situazione sotto controllo. E per qualunque cosa, Loid è quasi certo che che gli agenti dell’organizzazione siano già appostati sotto casa.

“Torno presto,” disse Loid con una mano già sulla maniglia della porta d’uscita e l’altra che stringeva una valigia piena quasi esclusivamente di attrezzi da spia. 

Yor gli sorrise, con Anya in braccio e Bond seduto solennemente accanto alle sue gambe. “Ti aspettiamo qui,” disse con una strana solennità.

Loid annuì e uscì di casa, con un peso nel petto e i volti di Anya e Yor ancora impressi nelle palpebre. Non era la prima volta che l’agente Twilight partiva per una missione sotto copertura senza sapere cosa ne sarebbe stato di lui né per quanto sarebbe stato via; ma è la prima volta che a qualcuno che, a casa, aspetta con ansia il suo ritorno. 

Forse quella strampalata famiglia arrangiata non era poi così male. 



chasing_medea: (Default)
Titolo: ossessione/interesse
Fandom: JJK
Missione: M6 - Liberosis
Parole:  1322
Rating: safe


Sukuna rientrò nell’appartamento che condivideva con il fratello gemello, trovandolo pieno di gente che non ricordava di aver mai visto prima. Ovunque sono sparse bottiglie di birra e bicchieri di plastica pieni di non vuole sapere che cosa, la musica ha un volume abbastanza alto da costringere gli ospiti a urlare per potersi parlare.

Una festa in piena regola.

Non gli sarebbe neanche dispiaciuto partecipare, se solo non avesse avuto un’emicrania terribile che gli dava la sensazione che la sua testa stesse per spaccarsi a metà dopo aver sostenuto l’ultimo esame della sessione. 

Pazienza, si disse. Avrebbe privato quella festa della sua presenza, tanto senza di lui non sarebbe stata chissà quale grande cosa.

Attraversò il soggiorno del proprio appartamento senza salutare nessuno, per strada prese abbastanza cibo da poter essere considerato una cena decente e qualcosa da bere, e si chiuse nella sua camera, contento di non trovare nessuno che stesse scopando nel suo letto. 

Dopo aver mangiato, si mise dei vestiti comodi e si buttò direttamente sul letto. I rumori che provenivano dal resto della casa continuavano a disturbarlo, musica e risate di gente ubriaca che celebrava la fine della sessione d’esami, così si allungò verso il comodino per recuperare le sue cuffie e scegliere un album. 

Chiuse gli occhi, immaginò la scena di andare a svegliare la mattina dopo Yuji per costringerlo a pulire casa nonostante il dopo sbornia - col cazzo che lui si sarebbe messo a fare qualcosa, mica era la sua festa - e si addormentò ancora prima di terminare la prima canzone.


Sukuna si svegliò nel bel mezzo della notte. L’album che aveva scelto prima di addormentarsi era arrivato alla fine, le cuffie erano storte e scomode sulla sua testa e, da fuori della sua stanza, non sembra provenire più alcun rumore.

C’era qualcuno nel suo letto.

Sukuna sbatté le palpebre un paio di volte, ancora troppo ancorato al sonno perché il suo stupore si trasformasse in rabbia. Tutto quello che riuciva a vedere dalla sua posizione era una massa di capelli neri e una schiena che, nella luce fioca che entra dalla finestra, si alzava e si abbassava al ritmo regolare del respiro.

Si tirò su sul letto, e il movimento sembrò disturbare il ragazzo, che si voltò verso Sukuna tenendosi strette addosso le coperte e aprì gli occhi. Anche nell’oscurità erano di un verde brillante.

Sukuna stava per chiedergli chi fosse e che cosa ci facesse nel suo letto, ma fu il ragazzo a parlare per primo. 

“Devo andare in bagno,” disse con voce roca e alzandosi dal letto. “Mi rimedieresti un pigiama? I jeans stringono,” continuò prima di uscire dalla stanza.

Sukuna, non sapeva bene neanche lui per quale motivo, allungò il braccio verso il comodino e ne tirò fuori un pigiama di un rosso intenso. 

Il ragazzo tornò poco dopo, prese il pigiama e si cambiò nel bel mezzo della stanza, senza preoccuparsi di Sukuna che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, poi si infilò nuovamente nel letto, un po’ più vicino a Sukuna di quanto non fosse stato prima, come un gatto alla ricerca di calore. 

Il ragazzo si addormentò in un attimo, e Sukuna era troppo stanco e confuso per fare domande. Si liberò dalla stretta delle cuffie, appoggiò la testa sul cuscino, e crollò nuovamente addormentato.


Il sole era già alto quando la mattina dopo Sukuna aprì nuovamente gli occhi, aveva dimenticato di chiudere le tende la sera prima. 

Era solo in camera. Del ragazzo che aveva dormito con lui non c’era neanche l’ombra, il pigiama che gli aveva prestato era ordinatamente piegato su una sedia, l’unica traccia che qualcun altro fosse stato in quella stanza ad eccezione di Sukuna. 

Non importa, si disse Sukuna. 


Il problema, Sukuna fu costretto ad ammettere, era che importava. Sukuna si ritrovò a strizzare gli occhi in giro per il campus ogni volta che vedeva una massa di capelli neri. Si guardava intorno con fare ossessivo, durante le lezioni, nei dintorni dell’università. Aveva anche cominciato a fare attenzione agli amici di suo fratello, cosa che non aveva mai fatto prima - non gliene era mai fregato molto di che gente frequentasse suo fratello, ognuno conduceva la sua vita, si tenevano aggiornati ma a distanza.

La sera prima, durante la cena, consumata sul divano davanti alla nuova puntata di uno show di Netflix con cui Yuji si era fissato, Sukuna era arrivato a tanto così dal chiederglielo, ma cosa avrebbe potuto chiedergli, “chi era il tizio con i capelli neri che si è infilato nel mio letto la sera della festa”? E sottoporsi alle costante prese in giro di Yuji? Non ne valeva la pena.

Eccetto che ne valeva la pena, perchè quella cosa, qualunque cosa fossa, lo stava tormentando. E Sukuna non avrebbe voluto pensarci, avrebbe fatto di tutto pur di non pensarci - aveva cominciato a studiare anche la sera per distrarsi, aveva cominciato ad uscire di più con gli amici - anche nella speranza di incontrare quella massa di capelli neri e quegli occhi verdi brillanti, ma non lo avrebbe mai ammesso. 


“Organizziamo una festa,” disse Sukuna seduto al tavolo della cucina. Era ormai sceso a patti con la sua ossessione, e l’unico modo per guarire sembrava ormai quella di assecondarla e scoprire quanto più potesse sul ragazzo in questione. 

 Yuji non avrebbe potuto sembrare più sconvolto dalla proposta. 

“Che c’è?” continuò rude Sukuna. “Non posso dare una festa?”

“Non vuoi mai dare feste, odi le feste perchè non hai stuoli di persone raccolti intorno a te pronti a baciare la terra su cui cammini”

“Questa volta mi va di dare una festa.”

“Chi sei tu e cosa hai fatto di mio fratello?”

Sukuna fulminò Yuji con lo sguardo e Yuji chiuse quella tangente, rendendosi probabilmente conto di star camminando sul filo del rasoio. 

Yuji sospirò, “Chi dovremmo invitare?”

“Quelli che hai chiamato l’altra volta?” Sukuna cercò di suonare disinteressato. “E aggiungo qualcuno del mio gruppo.”

Yuji continuava a guardarlo con sospetto, ma Sukuna finì di mangiare la sua cena e si chiuse in camera sua. Non aveva voglia di gestire un fratello ficcanaso.


La sera della festa, Sukuna navigava per le stanze con fare disinteressato. Beveva, chiacchierava con i suoi soliti amici al di sopra del caos della musica e delle persone. In un angolo, Sukuna vide suo fratello parlare con un tizio dai capelli bianchi. 

Se non andava errato era un assistente di un professore, avrebbe dovuto investigare la cosa, a giudicare dal modo in cui quei due si ronzavano intorno. 

Del ragazzo dai capelli neri, però, non c’era ancora nessuna traccia. Sukuna lo vide solamente dopo almeno un ora.

Era arrivato e si era messo a chiacchierare con Yuji e quel maniaco di assistente del professore - Sukuna aveva avuto una sola lezione con lui e gli era stata sufficiente per odiarlo, era abbastanza convinto che la cosa fosse reciproca, ma quale miglior momento per confermarlo?

Sukuna attraversò la stanza, appoggiò il gomito sulla spalla di suo fratello.

“Che ci fai qui?”

Gojo, esattamente come si aspettava, sorrise e lo guardò attraverso le lenti degli occhiali da sole, “Sono stato invitato,” disse con un sorriso, come se la questione non lo toccasse.

Il ragazzo con i capelli neri guardò Sukuna con il naso arricciato e l’aria vagamente disgustata. Sukuna sorrise trionfante, era esattamente quello che voleva.

“E tu saresti?” gli chiese.

“Fushiguro, non devi—” provò ad intromettersi Yuji, ma il ragazzo non gli diede il tempo di finire la frase.

“Fushiguro Megumi,” rispose, con voce ferma e senza staccare mai gli occhi verdi da quelli rossi di Sukuna. 

Sukuna venne chiamato da Uraume, si voltò nella sua direzione e poi lanciò un’altra occhiata a Fushiguro prima di allontanarsi da lì. Fushiguro non sembrava aver mai staccato gli occhi da lui.

Sukuna si allontanò dal gruppetto e tornò a raggiungere i suoi amici.

Fushiguro Megumi, eh? Interessante. 







chasing_medea: (Default)
 Titolo: a thousands years 
Fandom: JJK
Missione: M7 
Parole: 695
Rating: safe
Note: I do believe in fate and destiny, but I also believe we are only fated to do the things that we’d choose anyway. And I’d choose you: in a hundred lifetimes, in a hundred worlds, in any version of reality, I’d find you and I’d choose you.

Quando Sukuna sente la sua coscienza tornare a legarsi ad un corpo di carne, il suo primo pensiero va a lui. Quando apre gli occhi, le prime cose che vede furono il cielo stellato e la maledizione che stava provando ad attaccarlo.

Povera illusa

Sukuna non ha neanche bisogno di toccarla per prendersene cura, non si ferma neanche a controllare che sia veramente morta prima di voltarsi a guardare altrove. 

Nei mille anni in cui ha dormito, il mondo è cambiato radicalmente. Intorno a lui, dal suo punto rialzato, vede edifici alti abbastanza da toccare il cielo, luci artificiali che rischiarano la notte - gli umani hanno trovato finalmente il modo di prendersi cura di quel problemino che hanno sempre avuto con il buio, eh?

Il fresco della notte sulla pelle è inebriante, sentire di nuovo un corpo muoversi, invece che solo una coscienza che galleggia nel nulla, lo è altrettanto. Ha un mondo da esplorare, e non vede l’ora di farlo. 

Farà rinascere il suo regno, poi andrà a cercare il suo re e lo farà sedere ancora una volta ai piedi del suo trono. 

“Itadori Yuji,” chiama una voce alle sue spalle. Sukuna la riconoscerebbe nel buio, la riconoscerebbe nel caos, la riconoscerebbe fosse anche un sussurro in mezzo a una tormenta, ma il nome che dice è totalmente sbagliato. 

Sukuna si volta di scatto, un ringhio già pronto sulle labbra. Deve chiamare lui. Deve chiamare solamente lui.

Se lo trova davanti. Fushiguro Megumi. Lo sguardo fiero come la prima volta che lo ha visto, più giovane in volto dell’ultima volta che lo ha visto. 

Quel momento di distrazione è abbastanza perché il marmocchio in cui si è incarnato - quell’Itadori Yuji che gli ha rubato le prime parole che quella voce gli ha rivolto da mille anni a quel giorno - riprenda il controllo del suo corpo. 

La volta successiva che Sukuna riesce a prendere il controllo, si trova davanti uno di quei maledetti stregoni. Un migliaio di anni sono passati e sono ancora una razza irritante, quelli. Dice qualcosa sul vantarsi davanti a uno studente, e Sukuna attacca preso da una rabbia cieca: se qualcuno può pavoneggiarsi davanti a Fushiguro Megumi quello è lui. Lui e nessun altro. 

Ha appena cominciato a riscaldarsi, quando il moccioso - Yuji - prende nuovamente il controllo del suo corpo. 

Troverà il modo di fargliela pagare. 


Yuji e Megumi diventano amici, la parola ha un retrogusto amaro sulla lingua di Sukuna, ma almeno gli consente di vederlo da vicino. E’ giovane, ha forse la stessa età di quando lo ha incontrato la prima volta, millenni prima. Era una creatura magrolina e denutrita, ma aveva la fierezza di cento maledizioni. Si era presentato alla porta del suo tempio, si era inginocchiato davanti al suo trono. Cercava il potere per vendicarsi, e Sukuna glielo aveva concesso. 

Ha ancora una volta gli occhi di qualcuno che ha visto troppo, e ancora una volta Sukuna non era lì con lui. 

Stregoni di merda. La pagheranno.


L’occasione per avvicinarsi a lui arriva prima di quanto Sukuna avesse previsto. Una maledizione che riduce Yuji al confine tra la vita e la morte, troppo debole per tenerlo sotto controllo, e Sukuna è ancora una volta libero.

Trova Megumi nel giardino della prigione e Megumi, pur sapendo di non avere chance, non si fece scrupoli ad affrontarlo. 

Combattere di nuovo contro di lui è inebriante. E Sukuna ride, forte e senza remore, libero più di quanto non sia stato da quando ha preso possesso di quel corpo. 

Ma vede come Megumi si trattenga per non ferire il suo amico, vede che la preoccupazione principale è per lui. E Sukuna decide che gli darà qualcosa da ricordare: l’immagine di lui che strappa il cuore di Yuji. 

Sa che può guarirlo, ha solo bisogno di qualcosa per fare leva. 

Ed è quello che fa. Ottiene un minuto. E la possibilità di restare vicino a Megumi. 

Ancora non ricorda, ma lo farà presto. E se Sukuna ha aspettato mille anni, può aspettare ancora. Vuole vedere quel viso colpito dalla realizzazione, vuole vederlo avvicinarsi a lui. Vuole sentirsi ancora una volta il re del mondo con lui accanto. 

E, per Megumi, Sukuna sa che vale la pena aspettare. 








chasing_medea: (Default)
 Titolo: When you smile you knock me out, I fall apart and I thought I was so smart
Fandom: JJK
Missione: M6 - When you smile you knock me out, I fall apart and I thought I was so smart
Parole: 1053
Rating: safe
Note: When you smile you knock me out, I fall apart and I thought I was so smart

Dopo Geto, Gojo si era detto mai più. Poi era arrivato Yuji, che aveva preso i suoi propositi tra le mani con estrema delicatezza e li aveva mandati a schiantarsi contro la prima superficie solida disponibile.

Appoggiato al muro con le braccia incrociate, Gojo, attraverso le lenti dei suoi occhiali da sole, osserva Yuji, seduto sul divano e proteso verso il televisore, completamente preso dal film che sta guardando. La scimmia riposa tranquilla tra le sue braccia.

Come insegnante, Gojo non può che essere assolutamente soddisfatto e impressionato dai suoi progressi. Come persona, è tutta un’altra storia. 

I progressi di Yuji lo costringono a lodarlo, e lodarlo significa vedere da vicino il modo in cui i suoi occhi si illuminano al complimento e il suo sorriso si allarga e davanti a quello spettacolo Gojo è costretto a provare delle cose - non ha alcuna intenzione di usare la parola sentimenti, proprio no - e un po’ lo odia per questo. 

“Basta così per oggi,” annuncia Gojo dal suo angolo della stanza. Yuji si volta nella sua direzione e la scimmia tra le sue braccia non dà il minimo segno di svegliarsi. Si allunga verso il telecomando e mette in pausa il film. 

“Cosa facciamo, sensei?” chiede Yuji, contenendo a malapena l’eccitazione al pensiero di continuare il proprio allenamento. E se c’è una cosa più insopportabile del modo in cui Yuji sorride, è proprio il modo in cui guarda Gojo: con un profondo rispetto, non intaccato dalla sua personalità frivola e scostante - e nessuno ha mai guardato Gojo in quel modo. 

Yuji lo guarda come se lui avesse tutte le risposte, come se avesse non si sa qualche conoscenza profonda e non vedesse l’ora di poterla assorbire da lui e gli faceva venire voglia di avere davvero tutto ciò che Yuji cercava, anche solo perchè non lo andasse a cercare altrove. 

Gojo aveva provato a distanziarsi da lui. C’era un motivo per cui gli aveva affiancato Nanami, e, se aveva avuto successo nell’allontanarsi da lui, aveva fallito in maniera spettacolare nel restargli distante. 

Yuji guardava Gojo come se fosse una brava persona e, la cosa peggiore, era che gli faceva venire veramente voglia di esserlo. 

“Combattimento,” rispose Gojo.

Yuji scattò in piedi dal divano e ancora la scimmia tra le sue braccia non si mosse e Gojo avrebbe dovuto lodarlo per quello, ma Yuji stava già sorridendo ampiamente e Gojo era debole, tremendamente debole. 

Yuji si andò a parare davanti a lui, vicino. “Qui?” chiese con l’espressione confusa e guardandosi intorno, calcolando le dimensioni della stanza e catalogando il mobilio che avrebbero avuto in mezzo ai piedi nel pieno dell’incontro. arricciando il naso in un’espressione confusa.

Gojo non gli rispose, provò direttamente ad attaccarlo. I riflessi rapidi di Yuji gli permisero di fare un passo indietro ed evitare il colpo, per poi attaccare direttamente, La sua espressione si fece subito dura e concentrata, pienamente immerso in quello che stava facendo, a differenza di Gojo, la cui mente continuava a vagare. Per sua fortuna, Gojo era talmente abituato a combattere da non dover pensare troppo a quello che stava facendo.

Gojo cominciò a catalogare i progressi di Yuji, gli errori che aveva corretto. Il suo modo di combattere era sempre stato istintivo, ma gli erano bastate poche lezioni perchè a quell’istinto connaturato che aveva e ai riflessi eccezionali riuscisse ad integrare quel tanto di tecnica che gli permetteva di chiudere le aperture e rendere i suoi colpi più precisi, liberandosi dei movimenti inutili, ma senza irrigidirsi nella tecnica dei movimenti conosciuti e sutdiati. 

Combatteva in modo preciso e feroce, dal suo viso non traspariva ansia, impazienza, rabbia, solo concentrazione e attenzione ai movimenti di chi aveva di fronte in quel momento e rendendo allo stesso tempo impossibile per chi aveva di fronte leggere quale sarebbero stati i suoi futuri movimenti - ancora Gojo, che ormai era abituato ai suoi movimenti, occasionalmente restava sorpreso da quello che Yuji era in grado di tirare fuori dal cilindro. Poteva essere terrificante come caratteristica, e avrebbe potuto salvargli la vita, un giorno. 

Non era ancora in grado di combattere allo stesso livello di Gojo - un giorno lo sarebbe stato, Gojo non aveva dubbi - ma i suoi progressi erano stati eccezionali. A breve Gojo avrebbe dovuto innalzare il livello di difficoltà, cominciare a combattere quasi seriamente perché quelle sessioni di allenamento continuassero ad essere fruttuose per lui. 

Yuji non lo aveva mai battuto fino a quel momento, ma per qualche motivo la cosa sembrava motivarlo più che scoraggiarlo. Un giorno Gojo glielo aveva chiesto, Yuji aveva scosso le spalle, “se tu sei il più forte devo almeno riuscire a tenere testa a te per affrontare le maledizioni e salvare delle vite.” 

Yuji aveva sempre chiaro il motivo per cui combatteva, il motivo per cui si allenava. In ogni cosa che faceva aveva sempre chiaro il percorso, lo scopo, e questo gli permetteva di mettere tutto in prospettiva. Gojo si era chiesto se avesse mai avuto quella maturità, se l’avrebbe mai avuta. 

Gojo gli afferrò il polso e gli bloccò il braccio dietro la schiena, rendendogli impossibile muoversi. Yuji provò a dimenarsi un po’ nella stretta, ma poi lasciò perdere e Gojo gli lasciò andare il braccio. 

“Non male,” commentò. E Yuji si illuminò, come previsto, a quelle poche parole. Aveva le guance arrossate dallo sforzo e il fiato corto. 

Gojo doveva mettere fine a quella storia il più in fretta possibile. Dovevano tornare indietro, dovevano tornare a prendere le distanze perché continuando in quel modo nessuno dei due avrebbe resistito a lungo - e Gojo ci vedeva troppo bene per farsi sfuggire i segnali di interesse da parte di Yuji.

“Sei pronto per tornare dagli altri,” disse Gojo. “In occasione dell’incontro con la scuola di Kyoto, che ne dici? Un rinforzo potrebbe tornargli utile.” Gojo si dipinse in faccia il solito sorriso strafottente, e adesso Yuji vibrava per tutt’altro motivo. 

Gojo non voleva pensare al fatto che gli sarebbe mancato tutto quello - essere uno dei pochi a sapere che Yuji era in vita, tenerlo nascosto come se fosse il suo piccolo segreto. Protetto, gli suggerì una voce dentro di lui che somigliava a quella di Geto, come non sei riuscito a fare con me

Era meglio così. Per entrambi. Per tutti. Ma soprattutto per lui. 



chasing_medea: (Default)
 Titolo: La serra numero quattro
Fandom: Haikyuu
Prompt: M6 - Protagonist* all'ultimo anno di studi in un'accademia per individui con talenti speciali si preparano per il ballo scolastico 
Parole: 10.052
Rating: safe

Osamu guarda la campagna scorrere fuori dal finestrino del treno. Si sono lasciati da tempo alle spalle il caos di londra, e a breve anche i campi coltivati lasceranno il posto alla natura incontaminata e alle sue caotiche foreste. Il paesaggio familiare è illuminato dalla luce agrodolce nelle ultime volte. Osamu continua a guardare fuori, come se sperasse di riuscire a imprimersi nella memoria ogni dettaglio, ma è troppo pragmatico per credere che potesse avvenire veramente.

Nello scompartimento, come in tutto il treno, l’eccitazione è palpabile. Tutti sanno cosa li aspetta al loro arrivo, tutti sanno che quell’anno sarà diverso. 

“Secondo voi chi metterà il nome nel calice di fuoco?” chiede Goshiki, un grifondoro del sesto anno che solo di recente si è unito al loro gruppo. 

“Io sicuramente!” alza la voce Terushima, nonostante la bocca piena. 

“Probabilmente quei due casinisti di tassorosso,” risponde Rintarou, che aveva indossato la sua uniforme di Serperverde non appena era salito sul treno. 

“Nishinoya e Tanaka?” interviene Terushima. “Solo Nishinoya è del settimo anno.”

“Quello. Non ricordo mai chi è chi, stanno sempre insieme,” commenta senza troppo interesse Rintarou. “Il corvonero con i capelli neri, quello per cui Atsumu ha una cotta dal secondo anno, è del sesto anno?”

Atsumu, seduto di fronte ad Osamu nell’altro posto al finestrino, si strozza con il succo di zucca che sta bevendo. Osamu ridacchia alla sua reazione, davvero credeva di essere stato discreto al riguardo?

“Sakusa?” chiede Goshiki, senza considerare la reazione di Atsumu. “Credo sia al sesto anno, sì.” Appoggia la schiena al sedile e geme. “Non è giusto! Volevo partecipare anche io!” si lagna. “Tu no, Rintarou?”

“Non mi interessa,” risponde quello piatto. 



Mentre gli altri cominciano a scommettere su chi sarà scelto o meno, Atsumu segue la conversazione in silenzio. Ha la testa appoggiata al sedile e sembra guardare tutti dall’alto in basso con un sorriso sornione, sicuro che alla fine sarà lui ad essere scelto per rappresentare Hogwarts. Ogni tanto, getta un’occhiata ad Osamu. Lo guarda come se fosse l’unica altra persona in quello scompartimento sul piedistallo dal quale Atsumu guardava tutti gli altri. Non ha parlato di altro per tutta l’estate, anche Osamu, con le sue risposte a monosillabi e mugugni non è riuscito a scoraggiare la sua parlantina. 

Fuori dal finestrino ormai è tutto avvolto nell’oscurità, non deve mancare molto all’arrivo. Le luci nello scompartimento vengono accese, e ormai l’unica cosa che Osamu riesce a vedere nel vetro è il proprio riflesso. Si volta verso gli altri, intravede dei galeoni che vengono scambiati tra Goshiki e Terushima - si è distratto per un attimo, non ha idea su cosa abbiano scommesso, ma è abbastanza sicuro che prima o poi lo verrà a sapere. 

Il treno rallenta fino a fermarsi, le voci degli studenti si rincorrono e si sovrappongono sul binario, persone che non si sono viste per tutta l’estate si salutano a distanza, urlando i rispettivi nomi in mezzo al caos degli studenti. Quelli del primo anno si scambiano qualche occhiata confusa, fino a che non vengono chiamati a raccolta. Arriveranno al castello attraversando il lago, uno spettacolo riservato solo a loro. Osamu ancora lo ricorda, gli piacerebbe avere l’opportunità di vederlo di nuovo. 

Distante, Osamu vede una testa nera scendere dal treno - è difficile non notarlo, è sempre stato uno degli studenti più alti. Dal modo in cui si blocca sul posto, deve averlo notato anche Atsumu. 

Osamu sorride della sua reazione e ne approfitta per superarlo e prendersi l’ultimo posto sulla carrozza trainata dai cavalli invisibili e lasciare Atsumu sul binario. Quando Atsumu se ne accorge, gli urla qualcosa dietro ma Osamu è ormai troppo distante per sentirlo. 

Vede Sakusa avvicinarsi a lui, li vede aspettare insieme la carrozza successiva. Forse una volta che saranno seduti al tavolo, Atsumu non sarà più così arrabbiato. Peccato. 

Arrivati al castello, si dividono, ognuno va verso il tavolo della sua casa. Atsumu raggiunge Osamu, Terushima e Goshiki poco dopo. Ha la punta delle orecchie rossa, l’arrabbiatura di prima sembra ormai dimenticata. 


“Non vedo l’ora di vedere le ragazze di Beauxbatons,” commenta Terushima mentre salgono le scale e si dirigono al dormitorio di Grifondoro.

“Perché secondo te ti daranno una chance? C’è un motivo per cui tutte quelle di Hogwarts ti evitano,” dice Atsumu. “La fattura che ti sei preso da Kyoko è ancora leggenda in tutta la scuola. Quanto ci è voluto perché il tuo naso tornasse normale?”

Osamu cammina dietro di loro, concorda mentalmente con Atsumu.

“Punto sul fatto che non facciano in tempo ad informare tutte le ragazze dei miei trascorsi,” risponde Terushima, ma le sue guance si sono fatte improvvisamente rosse nonostante il fresco dei corridoi di pietra. 

“Bastano cinque minuti in tua presenza per convincerle ad evitarti.”

Raggiungono il ritratto della Signora Grassa, dicono la parola d’ordine e salgono direttamente nei dormitori, troppo stanchi dopo la lunga giornata di viaggio per fermarsi nella Sala Comune. Lungo le scale salutano Goshiki, che sale ancora un piano per raggiungere il dormitorio del sesto anno. Con lo stomaco pieno, la prospettiva di un letto caldo è estremamente allettante per Osamu.

Durante la cena l’annuncio del torneo, nonostante fosse atteso da tutti, ha suscitato un boato. Le chiacchiere cominciate sul treno sono ricominciate, amplificate per tutta la scuola, accompagnate dai lamenti dei più giovani che hanno cominciato a chiedere a gran voce un abbassamento dell’età minima per partecipare - al tavolo dei Serpeverde in particolare, ma Rintarou non era tra loro. Anni prima, anche lui ed Atsumu avevano partecipato al coro. Nella loro ingenuità, si erano lamentati del fatto di non poter partecipare. Si erano rimangiati tutto non appena avevano visto a quali sfide fossero stati sottoposti i partecipanti, ma la fiamma non si era mai spenta del tutto.

E i discorsi sull’argomento continuano adesso nel dormitorio. Osamu si stende sul letto, accentuando un po’ la stanchezza per non unirsi al discorso.

Sa di star evitando la questione, ma ancora non sa bene come dire al fratello che non ha intenzione di mettere il suo nome nel Calice.

Se lo erano promessi, mentre guardavano i campioni di quell’anno, mentre guardavano Durmstrang trionfare, che un giorno sarebbe toccato a loro, che sarebbe stato uno di loro a riportare quella coppa ad Hogwarts, ma adesso, al solo pensiero, Osamu sente la stanchezza pesargli sulle spalle. Non ha voglia di farlo, ma non ha neanche voglia di rompere la promessa fatta a suo fratello. Sa che non c’è un modo per uscire da quella situazione, il pensiero gli rode dentro da tutta l’estate, ma almeno per quella sera non ha voglia di pensarci. 


Riabituarsi alle lezioni dopo mesi di nullafacenza è sempre un trauma. Per non parlare del fatto che, essendo ormai studenti del settimo anno, i professori sono estremamente esigenti con loro e li hanno già caricati di compiti. 

Osamu si siede pesantemente sulla panca del tavolo di Grifondoro, un vago mal di testa comincia a farsi sentire dietro l’occhio sinistro. 

Terushima gli da una pacca condiscendente sulla spalla - come se non fossero nella stessa identica situazione. 

Gli ultimi studenti entrano nella Sala Grande e si siedono ai rispettivi tavoli, sulle tavole ancora non è comparso nulla da mangiare. C’è elettricità nell’aria, tutti aspettano l’annuncio dell’ingresso delle delegazioni delle altre scuole. 

Osamu da una parte condivide l’eccitazione che sente in giro, dall’altra non vede l’ora che tutto sia finito per poter mangiare. 

Il preside si alza dal suo posto al centro del tavolo dei professori. “E’ arrivato il momento,” disse, la sua voce sembra rimbombare sulle pareti. “Accogliamo gli studenti di Beauxbatons."

Non appena ebbe finito di parlare, le porte della Sala Grande si aprirono come a comando. Un’orda di studenti e studentesse vestiti di azzurro si riversarono nella sala, perfettamente ordinati. Camminavano con eleganza, il colore delle loro uniformi contrastava con il nero di quelle degli studenti di Hogwarts. Percorrono con eleganza tutta la lunghezza della Sala Grande fino a fermarsi davanti al tavolo dei professori. Dietro di loro cammina la preside. 

Accanto ad Osamu, Terushima ha già cominciato a studiare le ragazze del gruppo, pensando già a quale sarebbe stata la prima con cui ci avrebbe provato, ma ad Osamu arriva tutto distante.

I suoi occhi sono ancora fissi sulla preside. O, meglio, sul ragazzo che cammina alla sua destra. 

Ha i lineamenti delicati e un sorriso gentile, scambia alcune parole con la donna mentre le cammina elegantemente accanto. Il suo passo è leggero, sembra quasi non toccare il pavimento. I capelli bianchi dalle punte nere si muovono leggermente al ritmo dei suoi passi. Non sembra essere uno studente.

Gli studenti di Beauxbatons si divino per i tavoli delle case di Hogwarts - per incoraggiare la socializzazione. Osamu registra distrattamente Terushima che gli dice di spostarsi un po’ per fare posto ad alcuni di loro - probabilmente ragazze, ma Osamu non sta guardando. Non riesce a staccare gli occhi da quel ragazzo. Vorrebbe avere poteri telepatici o qualcosa del genere per convocarlo al loro tavolo, ma quello si accomoda accanto alla preside al tavolo dei professori.

Il preside di Hogwarts si alza di nuovo, annuncia l’ingresso degli studenti di Durmstrang. Osamu gira solo per un momento la testa in direzione della porta, vede le macchie rosse delle loro uniformi che entrano nella sala, registra distrattamente il rumore che i loro passi fanno sul pavimento in pietra della Sala Grande, ma non gli dedica particolarmente attenzione. I suoi occhi tornano su quel ragazzo seduto al tavolo dei professori, sul modo in cui osserva attentamente l’ingresso degli studenti davanti a lui, sul modo elegante in cui le sue mani si muovono per applaudire quando gli studenti sono schierati davanti al tavolo dei professori.

Forse non batte neanche le mani, come sarebbe educato e coerente fare, ancora troppo incantato da quel ragazzo. 

Anche quando il cibo compare e finalmente comincia la cena, Osamu non registra bene quello che sta mangiando - il che è veramente qualcosa a cui non è abituato. Il suo cuore continua a battere rapido, lo sente come se fosse fuori controllo. Sente gli altri parlare intorno a lui, prova a tornare in sè e a unirsi alla conversazione, ma è come se non fosse veramente lì.

Atsumu sembra essersi reso conto di qualcosa, perché in un paio di occasioni Osamu si ritrova il suo sguardo fisso su di lui con un sopracciglio alzato. 

Al termine della cena, il preside di Hogwarts si alza nuovamente in piedi. Il calice viene portato davanti al tavolo dei professori. Le sue fiamme blu si innalzano ipnotiche. E’ bellissimo. Da piccolo non pensava mai che sarebbe arrivato a vedere qualcosa del genere, quando era arrivata la lettera sia a lui che ad Atsumu era stato uno shock profondo per tutta la famiglia.

Il Ministro della Magia, seduto accanto al preside, si alza in piedi. Annuncia l’inizio ufficiale del torneo Tremaghi, annuncia che dalla mattina successiva sarà possibile inserire il proprio nome nel calice.

Osamu si riscuote improvvisamente. Qualunque cosa gli stia succedendo, non è quello il momento per affrontarla. E’ stata una giornata lunga, e, per lui, non è ancora finita.


“Non metterò il mio nome nel Calice,” esordisce Osamu. “E non ho intenzione di provare a diventare un professionista del Quidditch.”

Lui ed Atsumu sono nel bagno del dormitorio. Non c’è nessuno oltre a loro, i loro compagni di dormitorio hanno già finito di prepararsi per la notte.

Atsumu si ferma di colpo, lo spazzolino da denti resta sospeso a mezz’aria. Ogni muscolo del suo corpo è teso e Osamu può vedere il leggero tremore della tensione nelle sue braccia. Lentamente appoggia lo spazzolino di lato, tenendo lo sguardo fisso sul lavabo di marmo. Osamu resta in tensione, in attesa della reazione del fratello, che non tarda ad arrivare.

In un attimo, Atsumu scatta dalla sua posizione e afferra Osamu per la collottola del pigiama, spinge per attaccarlo al muro, ma Osamu ricambia la presa e lo respinge. Cominciano a colpirsi senza esclusione di colpi e in un attimo sono sul pavimento. Lottano rotolandosi sul pavimento, l’acqua caduta sul pavimento bagna il pigiama di entrambi ma anche la sensazione del freddo della pietra addosso non li ferma. 

“Sei un bugiardo del cazzo,” urla Atsumu. “Avevi promesso”

“Avevamo 12 anni, Tsumu!” replica Osamu, schivando un colpo diretto al suo zigomo. 

La lotta continua, le urla pure. I loro compagni di dormitorio arrivano di corsa, li separano. Faticano a tenerli separati.

Per il resto della serata i gemelli non si rivolgono più la parola. Vanno a dormire nei loro letti dandosi le spalle. 


La mattina successiva il trattamento del silenzio continua. Si siedono vicini come tutti gli altri giorni al tavolo della colazione, ma non si guardano in faccia, ignorano ognuno la presenza dell’altro. E la cosa va avanti anche durante le lezioni. Ad Osamu non sfugge come anche i professori li guardino straniti. Arrivati all’ora di pranzo, il clima teso che aleggia intorno a loro è ormai stato notato da tutti.

“Cosa gli è successo?” Osamu sente Goshiki chiedere a bassa voce a Terushima durante il pranzo.

“Osamu ha detto che non ha intenzione di mettere il nome nel Calice di fuoco”

Goshiki annuisce, gli getta un’occhiata. “Staranno bene?”

Terushima scuote le spalle, “Prima o poi.”

Quel pomeriggio, in mezzo agli applausi della folla, Atsumu mette il suo nome nel Calice di Fuoco. Gli studenti di Hogwarts lo applaudono, quelli delle altre scuole cominciano a studiarlo per capire meglio chi potrebbe essere il loro avversario. Subito dopo di lui, altri studenti mettono il loro nome nel calice. Un paio di loro sembrano nervosi per un momento al pensiero che anche Atsumu si sia candidato come campione di Hogwarts, dopotutto tutti sanno che Atsumu è uno studente brillante, uno dei candidati a diplomarsi con il massimo dei voti. Si rigirano il pezzetto di pergamena con il proprio nome tra le mani un paio di volte prima di attraversare la linea dell’età e mettere il proprio nome nel calice. 

Osamu osserva la scena dalla distanza. Non si congratula con suo fratello, e Atsumu non cerca il suo sguardo dopo avere messo il proprio nome. Le fiamme blu si sono innalzate, illuminando di un riflesso blu l’intera sala. Quello che doveva essere fatto è stato fatto. Non resta che aspettare il risultato.

Quel pomeriggio non hanno lezioni e Osamu non ne può più di quella pesantezza che lo circonda, del modo in cui lo guardano gli altri e del modo in cui Atsumu fa finta che non esista. Non ha intenzione di tornare sui suoi passi.

Approfitta del pomeriggio soleggiato per andare a fare una passeggiata nel parco. E’ ancora settembre, ma fa già freddo. Osamu, camminando, cerca di tenersi al sole, lasciando che il calore gli riscaldi la pelle del viso.

E’ quando passa accanto a una delle serre di erbologia che gli sembra di vedere qualcosa che si muove. Incuriosito si avvicina, si abbassa per non farsi vedere e sbircia all’interno.

Attraverso le vetrate riesce a vedere il ragazzo della sera prima, quello che era arrivato con la delegazione di Beauxbatons e si è è seduto al tavolo dei professori. Sta studiando con attenzione il contenuto di un vaso. Il sole che ha cominciato a calare entra dalle vetrate, gli illumina il viso e fa risplendere i capelli bianchi. Ha un leggero sorriso sulle labbra mentre, con le mani ricoperte dai guanti, osserva le foglie della pianta, come per studiarla. Visto da così vicino, la prima impressione che Osamu aveva avuto da lontano viene confermata. Ha i tratti del viso delicati ed eleganti - come si conviene alla fama degli studenti di Beauxbatons. 

Deve aver percepito il movimento con la coda dell’occhio, perchè all’improvviso si volta verso Osamu. Osamu resta nella sua posizione, continua a guardarlo. 

Il ragazzo gli sorride, lo saluta con la mano. Osamu, confuso e vagamente stordito, ricambia il saluto, poi si volta sui suoi passi e torna indietro. 

Non è sicuro se la passeggiata sia stata una buona idea o meno. 


La sera a cena il clima è lo stesso del pranzo. Atsumu è seduto accanto a lui, ma non parlano. Osamu non riesce a ricordare quando sia stata l’ultima volta che hanno trascorso tanto tempo senza rivolgersi la parola - ricorda vagamente una lite che avevano avuto al primo anno, ma è abbastanza convinto che non abbiano mai avuto una lite brutta come quella. 

Il suo pensiero continua a tornare al ragazzo della serra, al modo in cui guardava quella pianta. Con amore. Ad Osamu tutto questo sembrava ridicolo, non aveva mai avuto nè un grande interesse nè una grande affinità con l’erbologia, l’aveva sempre considerata una materia abbastanza inutile. Non come Pozioni, pozioni sì che era una materia seria. Era come la pasticceria che gli piaceva tanto, prevedeva e richiedeva ordine e costanza. C’è bisogno di conoscere gli ingredienti, bisogna sapere come trattarli: rispettali, e loro rispetteranno te, faranno quello che gli chiedi. C’era eleganza nelle pozioni, un’eleganza che non c’era nell’Erbologia. Aveva sempre preso in giro il fratello per essersi preso una cotta per una persona con cui non aveva mai neanche parlato, e ora si ritrovava lì a—

Inaspettatamente, fu Atsumu a riscuoterlo dai suoi pensieri. 

“Sei sicuro?” chiese.

Osamu non aveva bisogno di chiedere a cosa si stesse riferendo, “Sì”

“Quando avrò vinto— quando avrò la gloria e sarò famoso… non venire a piangere da me perchè lo vuoi anche tu. Sarò io a vincere, avrò io la vita migliore”

“Non ne sarei così sicuro”

“Lo vedremo”

“Lo vedremo”

Non sono ancora apposto, manca ancora del tempo perché lo siano, ma lo saranno. Osamu non ha dubbi. 


Settembre stava giungendo alla fine, le giornate avevano cominciato ad accorciarsi e dentro il castello non si poteva più girare senza mantello. Spifferi di aria fredda entravano da ogni dove. Le lezioni erano ormai in pieno svolgimento, gli studenti del settimo anno passavano ogni momento libero a studiare come dei disperati.

Osamu continuava a vedere in giro quello strano ragazzo di Beauxbatons, ma non gli era ancora ben chiaro cosa stesse facendo lì, e non gli risultava neanche che avesse messo il suo nome nel Calice. Non erano più stati vicini come quel giorno alla serra. Ogni volta che si incrociano nei corridoi, quel ragazzo gli sorride e Osamu - anche se non ha alcuna intenzione di ammetterlo neanche davanti a sé stesso - va leggermente in tilt. 

Il rapporto con Atsumu sembra ormai appianato, ma le vecchie frecciate sono ormai state sostituite dal fratello che si vanta di come alla fine sarà lui ad avere la vita migliore. Osamu risponde ogni volta che è ancora tutto da vedere e che alla fine sarà lui a vincere quella sfida. Nel complesso, tutto sembra scorrere normalmente. L’unica cosa che manca alla quotidiana vita di Hogwarts sono gli allenamenti di Quidditch, ma per una buona ragione.

A breve comincerà finalmente il torneo tremaghi, e tutti i pensieri sul Quidditch saranno abbandonati. Quella sera, finalmente, verranno svelati i nomi dei campioni. 

Per i corridoi non si parla di altro, ovunque per la scuola si sentono sussurri e bisbigli su chi sarà scelto come campione per Hogwarts, le scommesse su chi avrebbe partecipato alla selezione sono ormai agli sgoccioli, ma quelle su chi sarà scelto sono nel vivo. E’ tutto il giorno che Osamu, passando per i corridoi, vede scambi di falci e zellini sottobanco - almeno lo stanno facendo in maniera più discreta di quanto non avessero fatto il primo giorno sul treno. 

Quella sera a cena tutti sembrano ingurgitare il cibo in più in fretta possibile, come se finire prima la cena potrebbe velocizzare i tempi a far arrivare prima l’annuncio di chi saranno i campioni scelti.

Accanto ad Osamu, Atsumu sembra mangiare normalmente, ma Osamu è in grado di leggere i piccoli tic nervosi che alterano i suoi regolari movimenti, come la presa serrata sulle posate e il fatto che si debba fermare per bere dell’acqua ogni due o tre bocconi.

Osamu ha appena terminato di mangiare il dessert quando finalmente il cibo sparisce dalle tavole. Il sottile brusio di chiacchiere e il tintinnio delle stoviglie che hanno accompagnato la cena vanno scemando fino a scomparire. Sull’intera Sala Grande cala un silenzio teso.

Il preside si alza in piedi e si schiarisce la voce, il suono rimbomba nel silenzio della sala. Il calice di fuoco, che per l’intera cena ha brillato di fronte al tavolo dei professori, illuminando la pietra circostante di un sottile riflesso blu, sembra improvvisamente più imponente.

Il preside scende lentamente i gradini che portano dalla pedana rialzata dove si trova il tavolo dei professori fino al calice. 

Osamu getta un’occhiata al ragazzo. Ha gli occhi fissi sul preside anche lui, una sottile aria di anticipazione sembra incrinare l’usuale calma che sembra portarsi dietro ovunque vada. 

Sotto il tavolo, Osamu sente la gamba di Atsumu tremare nervosamente, saltellando sul posto, facendo tremare l’intera panca. Osamu gli da un calcio sotto il tavolo per farlo smettere. 

“Scopriremo adesso i campioni delle scuole,” annuncia il preside con voce tuonante. “Cominciando da Beauxbatons.”

Le fiamme blu del calice di fuoco si innalzano, il bagliore blu sembra riempire l’intera sala. Un pezzetto di pergamena bruciacchiata viene sputato fuori dalle fiamme, svolazza nell’aria fino a che il preside con lo afferra e annuncia il nome ad alta voce. Subito dopo è la volta di Durmstrang. Quando finalmente arriva il momento di Hogwarts, il silenzio nella Sala Grande si fa teso ed elettrico. 

Le fiamme si alzano ancora una volta, si tingono di un celestre brillante e sputano fuori l’ultimo foglietto. Il preside lo legge, guarda la sala e sorride. Aspetta un momento prima di annunciare il nome, aumentando la suspance.

Anche Osamu sente il nervosismo crescere in lui. Nonostante tutto, spera davvero che suo fratello venga scelto.

“ATUMU MIYA” annuncia il preside, e la sala esplode in un boato.

Atsumu si alza dal suo posto, raggiante in volto ma cercando di nasconderlo dietro la sua area di superiorità. Osamu gli da una pacca sulla spalla, forte abbastanza da farlo barcollare sul posto e Atsumu gli lancia un’occhiataccia, ma Osamu ride dell’ennesima presa in giro fatta al fratello.

Tutti gli altri Grifondoro seguono il suo esempio, e Atsumu raggiunge il tavolo dei professori accompagnato da vigorose pacche sulla spalle. Il preside e i professori sorridono alla scena. 

Osamu getta ancora una volta un’occhiata al ragazzo al tavolo dei professori. Sta sorridendo ed applaudendo educatamente.

I campioni spariscono dietro una porta dietro al tavolo dei professori, mentre gli studenti vengono invitati ad andare nuovamente al loro dormitorio.

Osamu è stanco, la tensione nervosa che aveva accumulato in quel mese di attesa anche senza realizzarlo finalmente gli presenta il conto, ma fa di tutto per combattere il sonno. 

Vuole essere sveglio quando Atsumu tornerà al dormitorio.  ed è sicuro che Atsumu non vede l’ora di vantarsi di come lui abbia messo oggi il primo mattone per la costruzione della sua futura gloria. 

E’ il momento per un’altra delle loro chiacchierate notturne, la prima da molto tempo a quella parte.


Atsumu cammina per i corridoi accumulando congratulazioni e in bocca al lupo da tutti, anche dagli studenti del primo anno che mai prima gli hanno rivolto la parola. Le accetta tutte con un sorriso tronfio che fa venire voglia ad Osamu di dargli un pugno, ma sospetta che per un giorno può anche concederglielo. 

Osamu vede anche il modo in cui suo fratello raddrizza le spalle davanti ad un certo Corvonero dai capelli neri, ma quello quando vede Atsumu volta lo sguardo e non gli offre le sue congratulazioni, come invece fa il Tassorosso che è con lui - se Osamu non ricorda male, quello dovrebbe essere il cugino. Quello è sufficiente ad attenuare il sorriso di Atsumu e Osamu si sente vagamente dispiaciuto per il fratello, ma non ha intenzione di dirglielo. 

Durante le lezioni Atsumu sembra tornare in sè - Osamu sa che suo fratello può sembrare fastidioso ed esuberante, ma sa anche che è una delle persone più serie che conosce. Atsumu sa meglio di chiunque altro che deve veramente impegnarsi per gestire il torneo senza che la sua media scolastica ne risenta. Ha sempre ammirato quel lato di suo fratello.

Dopo pranzo, Atsumu si chiude in biblioteca per portarsi avanti con i compiti, ma Osamu non ha voglia di restare chiuso nel castello.

Esce nel parco a fare un giro, si è portato anche i libri dietro - se trova un punto soleggiato potrebbe decidere di mettersi a fare il compito all’aperto. Davanti al bivio che porta alle serre, Osamu riflette un momento, poi decide di provarci e svolta a destra verso le serre.

Nella stessa serra dell’altra volta trova nuovamente il ragazzo. Oggi sta studiando un fiore di cui Osamu dovrebbe ricordare il nome. Sta prendendo appunti su un piccolo taccuino, ha una ruga di concentrazione che gli increspa un sopracciglio. 

Osamu resta a guardarlo, non ci prova neanche a nascondersi questa volta. Il ragazzo sembra concentrato, continua a prendere appunti sul suo quaderno e poi torna ad esaminare la piantina con attenzione. Versa una goccia di un liquido ambrato e osserva le reazioni della pianta, che si scuote leggermente e poi torna alla posizione iniziale. Il ragazzo segna qualcosa sul suo taccuino.

“Ti sei dato allo stalking?” lo raggiunge una voce piatta e leggermente annoiata alle sue spalle.

Osamu si volta e vede Rintarou poco distante che lo osserva con espressione piatta. 

Osamu lancia ancora un’occhiata al ragazzo di Beauxbatons, poi raggiunge Rintarou. “Mi ero solo distratto per un attimo.”

Rintarou getta un’occhiata alle sue spalle, vede il ragazzo nella serra, ancora concentrato sulla sua pianta, sembra non essersi reso conto di nulla nella sua concentrazione.

“Distratto, eh.” commenta piatto Rintarou.

Osamu comincia a camminare per il parco, con Rintarou alle sue spalle.

“Fuggi da Atsumu?” chiede dopo un po’.

“Non è più insopportabile del solito,” commenta Osamu.

Rintarou fa un verso di assenso in risposta. Camminano in silenzio per il parco in un silenzio confortevole, fino a trovare un punto in disparte illuminato da un accenno di sole. In silenzio si siedono e si mettono a lavorare ai loro compiti. Osamu ha sempre apprezzato quel lato di Rintarou. Ogni tanto è rinfrescante prendersi una pausa dal caos, dal parlare continuo di suo fratello.  C’era stato un tempo in cui lui e Rintarou erano usciti insieme, al quarto anno. Era durate due settimane e un bacio, poi si erano entrambi resi conto che era troppo strano e l’avevano chiusa lì - ma, tanto per divertirsi, avevano aspettato un po’ prima di comunicare la notizia ad Atsumu, che nel momento in cui era venuto a conoscenza del fatto aveva messo il broncio perchè adesso lo avrebbero abbandonato per fare i piccioncini. 

Osamu, Atsumu e Rintarou si conoscono sin dall’infanzia. Sono cresciuti nella stessa cittadina, ma Rintarou viene da una lunga stirpe di maghi - con il senno di poi, Atsumu e Osamu hanno capito perchè così raramente Rintarou avesse invitato a casa propria i gemelli. Quando avevano ricevuto la lettera, un anno prima rispetto a Rintarou che era di un anno più piccolo, era stato proprio Rintarou il più sorpreso di tutti, felice, avrebbe osato dire Osamu, come se fosse finalmente felice di aver potuto condividere anche quella parte della sua vita con loro. Quando era arrivato ad Hogwarts anche lui, loro tre avevano ricominciato a vedersi tutti i giorni, il fatto di essere stati smistati in case diverse non li aveva mai fermati. Sì, pensò Osamu, Rintarou era una presenza confortante. Diversa dalle farfalle nello stomaco che gli scatenava lo sconosciuto della serra. 


Il giorno della prima prova arriva in un lampo. Osamu riesce a capire quanto il fratello sia nervoso perchè non stava neanche cercando di nascondere il suo nervosismo al tavolo della colazione. 

Sul portone che dà sul cortile i gemelli si separano. Osamu non dice nulla, lui ed Atsumu si guardano in faccia e annuiscono, non si dicono altro, tutto è già chiaro, e si allontanano in direzioni opposte, Osamu verso gli spalti del campo di Quidditch, eletti a spalti per osservare la prova, e Atsumu in direzione della tenda dei campioni. 

Manca ancora un’ora all’inizio della prova, ma quasi tutti gli studenti hanno già preso posizione sugli spalti, sgomitando per avere i posti migliori. Osamu raggiunge Rintarou, in prima fila, che gli ha tenuto un posto. Accanto a lui, stretti sulla panca, si schiacciano Goshiki e Rintarou. 

Intorno ad Osamu tutti chiacchierano eccitati, ma Osamu non ha molta voglia di unirsi alla conversazione, più nervoso di quanto voglia ammettere di essere. Di fronte a lui, nello spalto opposto, Sakusa è in prima fila, si mangiucchia nervosamente le unghie mentre osserva alcune delle cose disposte in giro per il palco, cercando di dare un senso a quello che sta vedendo. Osamu pensa ancora una volta a quanto il fratello possa essere cieco in quel frangente. Sono mesi che prova a convincerlo a parlare con quel ragazzo di Corvonero, abbastanza sicuro che l’interesse sia ricambiato, ma in tutto ciò che non prevede allenamento e concerne invece la sfera dei sentimenti umani, Atsumu è un assoluto disastro. 

I campioni escono dalla tenda, seguiti dal preside e da un delegato del Ministero della Magia - non possono pensare di scomodare il Ministro in persona per tutti gli eventi, dopotutto. 

Il preside percorre a grandi passi lo spazio ovale che una volta era adibito a campo da Quidditch, punta la bacchetta alla propria gola e pronuncia un breve incantesimo che Osamu dalla sua posizione non riesce a sentire. 

“La prima prova,” comincia. “Sarà una corsa ad ostacoli lungo tutto il parco di Hogwarts. Imprevisti e ostacoli magici e fisici sono disposti per tutta la lunghezza del percorso. Al mio segnale, i campioni partiranno dalla linea,” indicò una linea disegnata all’estremità sinistra del campo, “dovranno girare per il parco e affrontare gli ostacoli. Il primo a tornare a quella linea e tagliare il traguardo otterrà 100 punti, il secondo 75 e il terzo 50. Campioni, allineatevi sulla linea!”

L’intero stadio applaude. Il delegato del Ministero si posiziona all’estremità della linea e punta in alto la bacchetta. Aspetta che tutti i campioni siano in linea e pronti a partire. Atsumu, per gareggiare, aveva scelto di indossare dei vestiti comodi, senza il mantello della divisa che avrebbe impacciato tutti i suoi movimenti. Aveva stivali di pelle e copribraccia di pelle, che somigliavano a quelli degli arcieri. 

“Si dia inizio ufficialmente al Torneo Tremaghi,” tuona il preside. Dalla bacchetta del delegato partono delle scintille rosse, che si sollevarono in cielo con sonori scoppiettii, i campioni partono.

Osamu tiene gli occhi fissi sulla figura del fratello, lo vede scacciare con un incantesimo la prima creatura spinta verso di lui senza neanche rallentare la sua corsa. Lui ed Atsumu erano sempre stati ottimi giocatori di calcio, avevano smesso di giocare quando erano arrivati ad Hogwarts per ovvie ragioni, ma tutte le estati giocavano ancora nel campo del quartiere con i loro amici storici. Lo segue con lo sguardo fino a che non furono usciti dal campo per infilarsi in un labirinto coperto. 

“Quindi quello è tuo fratello,” viene una voce dalle spalle di Osamu. 

Osamu si volta di scatto, e vede il ragazzo della serra seduto dietro di lui e sporto verso di lui, il suo viso era vicino.

“Non ero sicuro e non so il tuo nome” continua quello.

“Osamu,” mormora con gli occhi sgranati.

“Io sono Shinsuke”

Osamu sa che dovrebbe dire qualcosa, ma l’unica cosa che riesce a dire fu, “Tu non sei uno studente.”

Immediatamente, gli viene voglia di colpirsi ripetutamente sulla fronte. Shinsuke non sembra intimorito però, continua a sorridere, lo stesso piccolo sorriso che ha quando guardava le piante e che gli illumina i lineamenti. 

“No,” concorda. “Sono una sorta di assistente, mi sono diplomato lo scorso anno a Beauxbatons.” 

Quello che accade sul campo appare distante, fino a che non lo è più. I campioni cominciano a riemergere dal labirinto in cui erano spariti. Durmstrang è in testa, i suoi compagni di scuola esultano. I ragazzi di Hogwarts cominciano a chiamare il nome di Atsumu per incoraggiarlo.

E’ lui il secondo ad uscire fuori dal labirinto. Ha un taglio sulla guancia e sembra ricoperto di polvere, ma continua a correre. 

Arriva secondo al traguardo, la ragazza di Beauxbatons emerge dal labirinto quando gli altri due sono già arrivati al traguardo. Dietro ad Osamu, il ragazzo della— Shinsuke si lascia andare un sospiro dispiaciuto, ma la sua reazione non va oltre quello.


“Quello stronzo di Durmstrang,” sta dicendo Atsumu. Sono rientrati nella Sala Comune di Grifondoro e tutti gli studenti del dormitorio sono raccolti intorno a lui per ascoltare il racconto dettagliato di quello che è successo dentro al labirinto. “All’uscita del labirinto eravamo insieme, mi ha spinto dentro ai cespugli e mi ha fatto perdere l’uscita. Sono spuntato fuori in un corridoio pieno di mollicci e li ho dovuti fare fuori tutti.” 

Un ragazzo del secondo anno - con una evidente cotta per Atsumu, a detta di Rintarou - si indigna, “Dovresti denunciarlo ad uno dei professori.”

Atsumu scuote la testa, “Non era vietato dal regolamento,” dice scrollando le spalle e sorridendo al ragazzo, che si fa tutto rosso in viso e distoglie lo sguardo. Osamu è seduto per terra, ai piedi del divano di pelle rossa. Il fuoco scoppietta nel camino davanti a lui. Ha sentito quella storia già tre volte nel corso della giornata - un primo racconto, ad uso e consumo solamente suo e di Rintarou, nella tenda dei campioni subito dopo la fine della prova e una seconda a cena, davanti al gruppo ristretto di amici. 

Osamu aveva anche avuto il piacere di assistere alla scena di Sakusa che si aggirava davanti alla tenda dei campioni, fingendo di passare lì per caso. Aveva aspettato che Atsumu uscisse per chiedergli se stesse bene, Atsumu si era fatto tutto rosso e aveva balbettato qualcosa. Sakusa gli aveva detto di farsi curare quel taglio che aveva, fingendo che fosse un commento casuale, ma la punta delle sue orecchie si era fatta rossa. Osamo e Rintaro si erano scambiati uno sguardo, poi avevano colpito contemporaneamente Atsumu sulla nuca con una pacca.  

“Sapete niente della seconda prova?” chiede Goshiki, impaziente e sovreccitato esattamente come quando ha sentito la prima volta il racconto a cena. 

“Ancora niente, non credo avremo indizi.”

Mentre le domande continuano, e Atsumu si bea dell’attenzione che sta ricevendo, Osamu comincia a vagare con la mente e si trova ancora una volta a pensare a Shinsuke. Non appena era stato annunciato l’esito della prova, Osamu si era voltato a cercarlo, ma quello era già sparito in silenzio, esattamente come era arrivato. Quel ragazzo resta un mistero, e Osamu non ha idea del perchè lo affascini così tanto, ma ha tutte le intenzioni di scoprirne di più. 


Il giorno dopo, l’eccitazione non sembra ancora essersi quietata. Gli studenti continuano a parlare della prova del giorno prima nei corridoi. Il racconto più dettagliato che Atsumu ha dato agli studenti di Grifondoro già circola per l’intera scuola e le occhiatacce al campione di Durmstrang hanno sostituito l’ammirazione intorno alla sua figura che si era sviluppata nei giorni precedenti. 

Non hanno lezioni quel giorno, e Osamu ha approfittato della mattinata di pioggia per chiudersi in biblioteca a studiare, Atsumu è seduto accanto a lui, nonostante Osamu sappia che ha già terminato i suoi compiti prima della prova. Probabilmente anche lui ha voglia di sfuggire per un po’ dalle chiacchiere e dalle persone che lo fermano per i corridoi ogni tre passi. 

Il pomeriggio smette di piovere e, nonostante il terreno fangoso, Osamu decide di andare a fare un giro nel parco. Arrivato al bivio per le serre non ha alcuna esitazione, e svolta direttamente a destra. Ormai anche quella piccola deviazione è diventata tappa dei suoi giri nel parco. Si aspetta di trovare le serre vuote, ma tiene stretta al petto un briciolo di speranza di vedere Shinsuke anche quel giorno. Nonostante le sue aspettative, è lì che lo trova, ad osservare l’ennesima pianta di cui Osamu ignora il nome nella serra numero quattro, quella della professoressa Sprite e il cui accesso agli studenti resta vietato. Indossa solamente una maglietta leggera a maniche corte, e Osamu trema di freddo al solo vederlo. Invece di dare solo un’occhiata questa volta Osamu si avvicina e bussa delicatamente al vetro. 

Shinsuke alza lo sguardo dal vaso, e quando lo vede gli sorride. Gli fa cenno di entrare e Osamu fa il giro fino all’entrata ed apre la porta.

A differenza delle serre degli studenti, questa ricorda il giardino botanico che i suoi genitori lo hanno portato a visitare una domenica di molti anni prima. Sembra di entrare in una foresta vera e propria e il clima, lì dentro, è caldo e afoso. Osamu si toglie il mantello e il maglione dell’uniforme e tira su le maniche della camicia, allenta anche il nodo della cravatta rossa e oro e appoggia tutto su un bancone libero accanto all’entrata. Si aggira per la serra sentendosi quasi un esploratore nella foresta amazzonica dei racconti di avventura che gli piacevano tanto da bambino. Raggiunge Shinsuke all’estremità della serra e Shinsuke gli sorride. E’ appoggiato al bancone e guarda le piante rigogliose da cui Osamu è appena emerso. 

“Bello, eh?”

Osamu annuisce e si avvicina a lui. In lontananza, si sente il rombo di un tuono e poco dopo un nuovo scroscio di pioggia investe la serra, il rumore dell’acqua rimbomba sul vetro. Shinsuke guarda in alto, ma non sembra minimamente turbato dalla cosa.

“Sembra che dovremo restare qui un po’,” commenta neutrale. 

Osamu sente le guance riscaldarsi e spera che dipenda dalla temperatura della serra. 

“Ti piacciono le piante?” chiede Shinsuke.

“Non particolarmente,” ammette Osamu. Comincia a camminare avanti e indietro davanti al bancone davanti a cui Shinsuke stava portando avanti il suo studio, accarezza delicatamente le foglie delle piante lì allineate. “Erbologia non è una delle mie materie preferite.”

“Non lo farei se fossi in te,” commenta Shinsuke, mentre Osamu avvicina le dita all’ultima pianta della fila. “E’ estremamente velenosa. Ti paralizzerebbe il braccio almeno per un paio d’ore.”

Osamu ritrae la mano di scatto e opta per metterla in tasca, ma dopo poco la tira nuovamente fuori e comincia a giocare nervosamente con i polsini della camicia arrotolata al gomito, li stringe e li allarga di nuovo, cercando un modo in cui non gli blocchino la circolazione sanguigna del braccio.

“Non voglio disturbare il tuo lavoro,” gli dice Osamu. 

Shinsuke ignora quello che ha detto. “E qual è? La tua materia preferita,” chiede invece. 

Osamu si appoggia al bancone e guarda la fitta foresta di piante davanti a lui. “Pozioni,” risponde. “E’... metodica, ordinata. Pulita.”

Shinsuke fa un verso di assenso. “Piaceva anche a me. Non è molto lontana dall’Erbologia. Anche qui devi essere preciso e metodico, sapere come rapportarti alle varie piante.” Osamu arrischia un’occhiata nella sua direzione, sta guardando i fiori della pianta con sguardo dolce. “E poi lavorano spesso in stretto contatto. Devi usare molte di queste piante nelle pozioni.”

Osamu annuisce, “Non è che non ne capisco il senso o l’utilità,” si sente in dovere di difendersi. “E’ solo che non mi affascina. E’ bello vedere gli ingredienti che si mescolano e creano qualcosa, che interagiscono.”

Shinsuke sorride, come se comprendesse. “Vedere qualcosa che nasce dalle tue mani,” commenta. “Come vedere una pianta che cresce per me, immagino.”

“Credo di sì”

Cala il silenzio su di loro, ma è un silenzio confortevole. Osamu si sente stranamente a suo agio in presenza di quel ragazzo e teso allo stesso tempo, come se una strana tensione nervosa gli scorresse appena sotto la pelle. E’ una sensazione strana, non sa bene come definirla ma non ricorda di averla mai provata prima. 

“Come mai sei qui?” chiede Osamu dopo un po’. E’ una domanda che si porta dietro dal primo giorno in cui l’ha visto entrare con la delegazione di Beauxbatons.

“Voglio diventare professore,” dice. “I miei professori lo sanno e mi hanno proposto di venire a vedere altri insegnanti e come lavorano. E mi hanno detto che la professoressa Sprout aveva delle piante rare qui.”

“Non ti ho mai visto in classe,” commenta Osamu, e si rende conto che gli sarebbe piaciuto vederlo anche durante le lezioni, anche se probabilmente sarebbe stato una distrazione.

“Sto seguendo principalmente le lezioni dei ragazzi più piccoli, fino al quinto anno.”

Shisuke si solleva agilmente sulle braccia e si siede sul piano di lavoro. La pioggia cade ancora fitta, il suo rumore si è addolcito però, diventando un leggero sottofondo alla loro conversazione. 

Ci sono decisamente modi peggiori di passare il pomeriggio, pensa Osamu. 


Dopo quel giorno, Osamu e Shinsuke cominciano a passare del tempo insieme. Quelle che inizialmente sono visite occasioni, a poco a poco diventano quotidiane. Ogni giorno, il pomeriggio, non appena finisce le lezioni, Osamu si affretta a raggiungere la serra numero quattro. Si separano solo per cene. Osamu è profondamente affascinato da quel ragazzo e ogni volta che le serre entrano nel suo campo visivo il suo cuore comincia a battere all’impazzata. La presenza di Shinsuke è calmante ed elettrificante allo stesso tempo. I suoi compagni di dormitorio cominciano a prenderlo in giro, a chiedergli se si è trovato un fidanzato segreto e perché lo stia tenendo nascosto, ma Osamu è fino adesso riuscire a sgusciare via ed evitare le domande. 

Un giorno, scendendo per andare alle serre ha anche intravisto suo fratello in un angolo del cortile che chiacchierava con Sakusa. Sembrava che finalmente si fosse deciso a fare il suo passo. 

L’ultima lezione è appena terminata, e Osamu si sta già sbrigando per mettere tutte le sue cose nella borsa quando viene interrotto dalla professoressa. E’ la professoressa di Pozioni, la responsabile dei Grifondoro. 

“Oggi tutti i Grifondoro sono convocati nella Sala Grande per le ore 17.00. Non sono ammesse assenze,” dice decisa. Osamu sente il peso della delusione cadergli sulle spalle.  Pensa distrattamente di mandare un gufo alla serra o di fare una scappata rapida giusto per avvertirlo, ma non si sono mai andati un appuntamento fisso, e soprattutto— sono appuntamenti quelli? Osamu può definirli in quel modo? Alla fine decide di non fare nulla. 

All’ora convenuta si dirige verso la Sala Grande, ma non è per nulla contento della cosa. 

Tutti i Grifondoro dal quarto anno in su sono riuniti nella Sala Grande e si guardano confusi. La professoressa entra poco dopo e si guarda intorno, per accertarsi che siano tutti presenti, poi annuisce.

“Come saprete, è tradizione, nel corso del Torneo Tremaghi, organizzare un ballo. Si terrà la sera della Vigilia di Natale nella Sala Grande. Oggi comincerete le vostre lezioni di ballo.”

Osamu ed Atsumu si guardano con gli occhi sbarrati. Ovviamente sapevano del ballo, ma tra i compiti del settimo anno e le altre cose se ne erano dimenticati, o meglio non avevano preso in considerazione il fatto che il momento si stava avvicinando in maniera inesorabile. 

Osamu sapeva chi avrebbe voluto invitare al ballo, ma da lì a farlo effettivamente…  non era così sicuro di essere in grado di farlo. Suo fratello sembrava aver avuto lo stesso pensiero.

La prima lezione di ballo va meglio di quanto Osamu avesse pensato. Gli anni di calcio gli hanno almeno lasciato un buon controllo dei movimenti dei suoi piedi ed evita di inciampare nei piedi della sua partner designata per la lezione. 

Quando Osamu arriva alla serra, quella sera, Shinsuke è già andato via. 


“Non hai mai avuto voglia di partecipare al torneo?” chiede Osamu.

Shinsuke è concentrato sulla sua pianta, ma alza lo sguardo verso di lui.

“Non particolarmente,” dice. “Non ho mai pensato fosse qualcosa che facesse per me. E non credo di essere mai stato un mago particolarmente dotato.”

Osamu non riesce a credere alle proprie orecchie, ma Shinsuke non l’ha detto con fare melodrammatico o piangendosi addosso, lo dice come dato di fatto e con profonda consapevolezza di sè.

“Però vuoi diventare professore.”

Shinsuke sorride. “Le piante non richiedono capacità particolari. Devi solo imparare come trattarle. Un po’ come le persone.”

“A me sembra una cosa incredibile”

Shinsuke ride. La sua risata è alta e cristallina, per qualche motivo gli ricorda la bellezza di un lago in inverno. “Serve solo tanta esperienza… E qualche avvelenamento di troppo.”

Osamu non sa bene come replicare.

“E tu?” chiede Shinsuke. “Hai mai voluto partecipare?”

“C’è stato un tempo in cui credevo di sì, ma quando mi si è presentata l’opportunità… Non so, non ne avevo voglia.”

Osamu lascia fuori come ogni tanto, la notte, resti sveglio a chiedersi se abbia sprecato la sua opportunità, se in fondo sia stato un codardo a rinunciare, a scegliere di non provarci neanche, ma per qualche motivo, ha la sensazione che Shinsuke abbia capito. 

“Cosa vorresti fare una volta fuori da qui?” chiede.

Osamu aspetta un momento prima di rispondere. Per il momento, l’unico a sapere quali siano i suoi piani è Atsumu, ma c’è qualcosa di confortante nell’idea di condividerli con qualcuno come Shinsuke. 

“Voglio aprire una pasticceria,” risponde.

Shinsuke sorride. “E’ un bel progetto.”

A sentirselo dire in quel tono calmo e rassicurante, Osamu si sente un po’ più sicuro. 

“E’ normale cambiare idea. Fa parte del crescere”

“Hai sempre voluto fare l’insegnante?”

Shinsuke ride. “No. Quando ero piccolo volevo fare lo scrittore, poi ho conosciuto i miei insegnanti… mi piace l’idea di trasmettere qualcosa, la possibilità di far appassionare qualcuno a qualcosa. E’ una cosa potente.”

Osamu sorride. Se avesse avuto un insegnante così, probabilmente anche lui si sarebbe appassionato all’Erbologia. 



La Vigilia di Natale si avvicina inesorabile e Osamu ancora non ho trovato il modo di fare il suo invito a Shinsuke. La prima neve aveva cominciato a cadere su Hogwarts e, uscendo dal castello, dalla pietra scura dei suoi muri e delle sue scale, il bianco era accecante e le sferzate di vento freddo sulla faccia facevano lacrimare gli occhi. Osamu non si lascia scoraggiare, però, manca una settimana al ballo, l'ultimo giorno di lezioni è appena terminato per lasciare spazio alle vacanze di Natale - che saranno soffocate dai compiti - e lui ha deciso che oggi è il giorno.

Il calore della serra numero quattro è soffocante, ma piacevole sulle guance arrossate dal vento gelato. Shinsuke è al suo posto, concentrato sull'ennesima pianta dall'aspetto inquietante. Sembra un fiore fatto di spine, ricorda una rosa secca e appuntita, o la palla delle vecchie mazze da combattimento che si vedono nei musei medievali. Nei giorni che hanno trascorso insieme, Osamu è venuto meglio a conoscenza degli studi che sta portando avanti. Sta lavorando su delle piante velenose cercando di capire se, in piccole quantità, possano avere effetti benefici in medicina e quali. 

"È una pianta che viene dal sudamerica," spiega Shinsuke. "È stata trovata qualche anno fa nel mezzo della foresta amazzonica. Riesce a crescere solo in questa serra. Non vedevo l'ora di metterci le mani."

Osamu ancora non capisce bene la sua fascinazione per le piante, che per lui non sono nulla più di ingredienti per le pozioni, come lo zucchero per i dolci, ma che non hanno alcuna attrattiva di per sé, ma la fascinazione dona a Shinsuke. È una eccitazione quieta e silenziosa, ma che fa risplendere il suo viso - Osamu ha letto in passato di come risplenda la pelle delle veela e si chiede distrattamente se sia qualcosa del genere o se Shinsuke abbia avuto qualche veela nel proprio albero genealogico.

Le parole sono fuori dalla bocca di Osamu ancora prima che se ne renda conto - non lo ha neanche salutato, si renderà conto poi, quella sera, quando la sua mente mentre cercherà di addormentarsi non farà che mandargli le immagini di quel fiasco.

Shinsuke sgrana gli occhi leggermente. Lentamente, raddrizza la schiena e si toglie i guanti protettivi un tirando la punta di un dito alla volta. Gli occhi grigi si appoggiano su Osamu, pieni di tristezza nonostante il sorriso gentile che gli rivolge.

"Mi dispiace," dice come prima cosa. "Faccio parte del corpo insegnanti e non sarebbe appropriato andare al ballo con uno studente."

"Oh. Ok." Le guance di Osamu bruciano adesso per un motivo completamente differente. "Mi sono ricordato… Atsumu… Devo andare," balbetta e fugge dalla serra.

È ancora presto, ma il cielo è già buio e senza stelle. Osamu vuole solo sparire sotto le coperte del suo letto. 

Quella sera non scende a cena. 


E’ lì che lo trova Atsumu, in posizione fetale sul letto, stretto al cuscino e con le coperte tirate su fino a coprirgli quasi interamente il viso. In silenzio, Atsumu si siede accanto a lui sul letto e non dice nulla. Gli fa solo percepire la sua vicinanza.

Nel dormitorio non c’è nessun altro e Osamu, per la prima volta da quando tutta quella storia è iniziata, vuota il sacco e racconta tutto al fratello. 

“Almeno tu hai invitato Sakusa?” chiede Osamu alla fine del suo racconto per distogliere l’attenzione da sè e non a suo agio sotto lo sguardo triste e compassionevole che gli rivolge il fratello. Ne ha abbastanza di sguardi tristi, e il fatto che venga da Atsumu, che non lo sta prendendo in giro per il modo in cui si sta comportando, gli rende solo più chiaro di quanto debba sembrare a pezzi in quel momento.

Atsumu si fa rosso in viso e abbassa lo sguardo, gioca nervosamente con le sue dita. Le sue mani sono più eleganti rispetto a quella di Osamu, callose e piene di tagli per via delle classi supplementari di Pozioni che ha deciso di affrontare. Le mani di Atsumu sono quelle di un abile incantatore, fatte apposta per avvolgersi in maniera aggraziata attorno ad una bacchetta. 

“Non ancora,” ammette.

“E staresti aspettando cosa?” Osamu gli chiede esasperato, lanciando via parte delle coperte.

“Non so come si faccia!”

“Glielo devi solo chiedere, ti dirà di sì!”

“E tu come lo sai?”

Osamu ripensa al nervosismo di Sakusa prima della prima prova, pensa al modo in cui ha aspettato Atsumu davanti alla tenda, fingendo di passare lì per caso. Pensa a quando li ha visti chiacchierare vicini in cortile, troppo vicini per essere una cosa senza interesse da parte di entrambi. 

“Fidati,” risponde.

Atsumu annuisce e non chiede altre spiegazioni. Sa fin troppo bene che Osamu non gli mentirebbe ne’ gli addolcirebbe la verità. Se gli dice che può funzionare, non c’è nessuno al mondo di cui si fidi di più. 


Osamu non va più alla serra. Ci prova una volta, un paio di giorni dopo, ma l’umiliazione brucia ancora troppo forte e Osamu si dice che forse dovrebbe dedicare il suo tempo libero al rimettersi in pari con lo studio invece che a quelle chiacchierate. Sì, è solo perchè è impegnato, non è che stia evitando Shinsuke. Ogni tanto lo incrocia per i corridoi, e Shinsuke lo saluta con un cenno della mano e un sorriso, ma i suoi occhi hanno sempre quel sottotono agrodolce che Osamu non riesce a sopportare. Non ha alcuna intenzione di vedersi quello sguardo addosso ancora una volta, non riuscirebbe a sopportarlo.

La sera del ballo è ormai alle porte, e Osamu sta seriamente considerando di non andare. I suoi compagni di dormitorio continuano a prenderlo in giro, non gli credono quando gli dice che non ha nessuno da portare con sè al ballo. Continuano a chiedergli del fidanzato segreto, gli chiedono se lo porterà al ballo - ogni volta Osamu sente una fitta allo stomaco davanti a quelle battute - e Osamu è stanco anche di negare, tanto continuano a non credergli e fargli domande. Una volta è addirittura intervenuto Atsumu in sua difesa e Osamu lo ha un po’ odiato per quello.

In questi giorni c’è un’aura luminosa intorno a Atsumu. Ha chiesto a Sakusa di andare al ballo con lui, e quello ha detto sì e Atsumu non riesce a fare a meno di parlarne. Osamu è seriamente contento per lui, ma l’ultima volta che viene da lui con l’ennesimo abbigliamento di vestiario, chiedendogli se gli starebbero meglio le decorazioni rosse o blu Osamu ha seriamente la tentazione di fiondare lui, i suoi vestiti e il suo baule fuori dalla finestra della torre di Grifondoro. 

Alla fine, Osamu si lascia convincere dai suoi compagni. Mal che vada, potrà assaggiare dei cibi nuovi durante il ballo. E’ sicuro che le cucine di Hogwarts siano ben attrezzate per offrire qualcosa di speciale durante un’occasione del genere e Osamu non ha alcuna intenzione di lasciarselo scappare, soprattutto per un ragazzo. 

Con una nuova determinazione, Osamu, la sera del ballo, si prepara insieme agli altri. Anche se sarebbe più corretto dire che è il primo di tutto il dormitorio del settimo anno ad essere pronto e, seduto sul letto, guarda gli altri andare nel panico e sgomitare per farsi spazio davanti all’unico specchio della stanza circolare. Atsumu è ancora in trip per il colore delle decorazioni, Terushima cerca di capire cosa fare dei suoi capelli e Osamu si gode la scena, già pronto e con il suo vestito elegante indossato e perfettamente sistemato. Gli ci mancano i pop corn.

Quando finalmente tutti sembrano essere pronti, scendono le scale e davanti alla sala grande Atsumu si separa dal gruppo per raggiungere gli altri campioni, che dovranno entrare tutti insieme e aprire le danze. 

Sakusa è già lì che lo aspetta e Osamu vede suo fratello andare in tilt e cominciare a passarsi nervosamente una mano tra i capelli, chiedendo ripetutamente a lui e Terushima, “come sto? I miei capelli sono apposto?”. Osamu lo spinge in direzione di Sakusa senza rispondergli. 

Osamu si guarda intorno, e non gli sembra di vedere Shinsuke da nessuna parte. Se da una parte qualcosa si allenta dentro di lui, dall’altra non riesce pienamente a mascherare la delusione.

“Allora è vero,” commenta Terushima in un sussurro. 

Osamu sospira, “Gliel’ho chiesto. Ha rifiutato.”

Terushima gli da una pacca sulla spalla in un tentativo di conforto. “Mi dispiace,” dice. “Sai, per non averti creduto e— “

“Smettila. Sei inquietante quando provi a scusarti”

Terushima annuisce e raddrizza nuovamente la schiena. “Hai bisogno di…”

“No. Sparisci. Non hai qualcuno che ti aspetta?”

Terushima lo saluta e si avvicina ad una ragazza di Beauxbatons. E’ carina, con dei lunghi capelli biondi e l’espressione sveglia. Ad Osamu dà l’impressione di una che può tenere a bada Terushima senza problemi, ma si ripromette comunque di gettare un’occhiata ogni tanto all’amico nel corso della serata, tanto per assicurarsi che non esageri come gli può capitare di fare. 

Le porte della Sala Grande si aprono e Osamu resta senza fiato. I soliti tavoli lunghi delle case sono stati sostituiti da più piccoli tavoli circolari sparsi per la stanza, dal cielo stellato cadono leggeri fiocchi di neve che si dissolvono nell’aria prima di toccare gli studenti. Intorno alla stanza, sono sparsi alberi di Natale riccamente decorati con festoni e palline blu e argentati. Al centro, un largo spazio è stato lasciato per ballare. Solo il tavolo dei professori sembra essere rimasto invariato, ma anche su quello sono presenti numerose decorazione dello stesso blu e argento che adorna l’intera sala. Nell’angolo sinistro è stato montato un piccolo palco, sul quale si trova un’orchestra. 

I campioni raggiungono il centro della pista e cominciano a ballare, poco dopo il resto degli studenti si unisce a loro. 

Osamu resta in disparte. Su un grande tavolo da buffet sistemato alla sinistra dell’ingresso sono apparse pietanze prelibate e ricche. Poco distante, un altro tavolo è stracolmo di dolci che Osamu non ha mai visto. Vuole assaggiare tutto.

Ogni tanto continua a gettare occhiate in direzione del tavolo dei professori, ma Shinsuke continua a non vedersi e, andando avanti con la serata, Osamu sente quel nodo d’ansia che si era accumulato in lui cominciare a sciogliersi. Almeno non dovrà vederlo.

Nel complesso, la serata si sta rivelando più piacevole del previsto. Osamu non è l’unico senza un accompagnatore, e si ritrova a chiacchierare con altri studenti che, come lui, sono lì più per il cibo che per le danze. 

Osamu ha ormai cominciato a sentirsi al sicuro, quindi quando alzando di nuovo lo sguardo per vedere cosa stia succedendo nel resto della sala incrocia quello di Shinsuke si sente tradito nel profondo e colpito da un immaginario pugno allo stomaco che gli mozza il fiato in gola.

I vestiti eleganti gli donano. Ha scelto un completo di un grigio scuro che fa risaltare ancora di più il bianco dei suoi capelli il grigio argenteo dei suoi occhi.
Shinsuke gli sorride e comincia ad attraversare la sala nella sua direzione. Osamu vorrebbe scappare, ma sa che ormai è troppo tardi anche per nascondersi. Il cuore comincia a battergli forte nel petto. Shinsuke attraversa la sala agilmente, muovendosi come acqua che lenta e costante riesce ad arrivare dove vuole infilandosi tra le crepe. Ha un modo affascinante di muoversi. 

“Cosa mi consigli?” gli chiede Shinsuke. 

“Dolce o salato?” Osamu chiede, e spera che la voce non gli tremi quanto sembra a lui. 

Shinsuke sembra pensarci un momento. “Dolce,” dice alla fine.

“La torta di zucca e cannella è molto buona, ma se vuoi qualcosa di particolare ti consiglio la gelatina di ribes e arancia con un po’ di gelato.”

Parlare di dolci lo rilassa, è qualcosa in cui si sente a suo agio, e Shinsuke sembra saperlo. Probabilmente è per quello che ha cominciato da quella domanda - Osamu ricorda che, quando in passato il discorso era saltato fuori, Shinsuke gli aveva detto di preferire il salato. Shinsuke segue il suo consiglio e si serve un un po’ di gelatina con il gelato e anche un succo di zucca. Si appoggia ad un tavolo in un angolo della sala.

“Non sei più venuto alla serra,” gli dice dopo un po’ Shinsuke.

“Sono stato impegnato”

Sanno entrambi che non è così, e Osamu sa che quando Shinsuke riprende a parlare sta solo fingendo di essersi bevuto la sua balla. “Qualcosa con cui ti posso aiutare?”

“Non al momento”

“Se hai bisogno…”

“Sì, grazie.”

La conversazione è rigida, completamente l’opposto di quello che è sempre stata tra di loro. Osamu vede la calma nei lineamenti di Shinsuke e per la prima volta la cosa lo fa infuriare. Possibile che solo lui sia così influenzato da quello che è successo? Possibile che non abbia neanche scalfito Shinsuke?

“Avevo paura non fossi più qui,” ammette Shinsuke. “Non ero neanche sicuro di voler venire, ma quando mi sono deciso a venire…. Avevo paura fossi già andato via. O avessi scelto di non venire.”

Osamu non sa bene cosa dire. Aspetta in silenzio che Shinsuke continui. La sala intorno a loro ha cominciato a svuotarsi, i professori sono spariti per lasciare agli studenti un po’ di spazio di libertà, la pista da ballo è quasi interamente vuota. I musicisti si sono allontanati dal palco, e gli strumenti continuano a suonare da soli per qualche incantesimo che Osamu non aveva mai creduto potesse esistere. Anche Atsumu sembra essere sparito da qualche parte.

Shinsuke riprende a parlare. “Mi dispiace—”

Ma Osamu non vuole sentire altre scuse. “Non devi,” lo interrompe. “Non c’è bisogno di parlarne.”

“Fammi finire,” dice Shinsuke, ed è la prima volta che Osamu sente un briciolo di irritazione e nervosismo penetrare nella sua voce. Shinsuke fa ondeggiare nervosamente il succo di zucca nel bicchiere, non ne ha bevuto neanche un sorso. “Mi dispiace averti dovuto dire di no, perchè avrei voluto davvero venire al ballo con te.”

E Osamu non sa bene come reagire a quelle parole. Si sente come se una bomba fosse esplosa nel suo petto. E’ confuso ed eccitato e vorrebbe dire centinaia di cosa, ma sembra non riuscire a dirne neanche una, ma Shinsuke non ha finito di parlare. 

“Non c’è più nessuno,” commenta. 

Osamu sposta gli occhi da Shinsuke alla sala, e nota che anche gli ultimi instancabili ballerini hanno lasciato la sala, ma gli strumenti continuano a suonare. 

“Forse dovremmo andare anche a noi,” dice.

“Forse,” risponde Shusuke con una scintilla negli occhi. “O forse potremmo fare qualcos’altro.” Abbandona il proprio bicchiere su un tavolo e porge la mano ad Osamu, “So che è tardi, ma vorresti venire al ballo con me?”

Ad Osamu viene da ridere, profondo e di pancia. Prende la mano di Shinsuke, le sue dita sono fredde e callose, portano i segni delle ore passate in mezzo alla terra a studiare piante e fiori. 

“Con piacere.”

 

Comfort

Mar. 12th, 2021 05:18 pm
chasing_medea: (Default)
 Titolo: Comfort
Fandom: BNHA
Missione: M1 - Attacco
Parole: 1234


Nel mezzo del combattimento, Hawks cadde al suolo.
Con la coda dell'occhio, Enji vide una macchia rossa precipitare dal cielo. Non sarebbe mai arrivato in tempo. Uno dei villain approfittò di quel secondo di distrazione di Endeavor per avvicinarsi. Il colpo gli arrivò diretto allo sterno, mozzandogli il fiato nei polmoni. Endeavor si riprese in fretta e ricambiò l'attacco, con un pugno secco. Il villain cadde al suolo, svenuto. Continuando a colpire a attaccare, Endeavor cominciò ad indietreggiare, avvicinandosi al punto dove aveva visto cadere Hawks. Voleva accertarsi che stesse bene - non che ci fossero molte alternative. Quell'uccello maledetto aveva più vite di un gatto. 
La maggior parte dei villain che avevano attaccato erano ormai stesi al suolo o incapacitati in qualche altra maniera, ma gli ultimi rimasti stavano continuando ad attaccare con tutto ciò che avevano, animati dalla disperazione e dalla consapevolezza di non avere più vie di fuga. Endeavor ne bloccò un paio di altri durante il tragitto.
Non distante da lui, Miruko combatteva con un villain grande il doppio di lei e con il corpo ricoperto da una corazza che somigliava a quella di un armadillo. Alle sue spalle, Hawks era seduto con le ginocchia piegate e gli occhi sbarrati. Teneva lo sguardo fisso su una crepa nell'asfalto in frantumi. Il caos intorno a lui sembrava non raggiungerlo. 
"Alzati da lì!" gli urlò Endeavor, parando ancora un altro attacco e spedendo le sue fiamme lontane, per schermare un eroe in difficoltà davanti ad un altro dei villian. 
Endeavor e gli eroi rimasti si occuparono dei pochi villain rimasti in poco tempo. Ogni tanto Endevor continuava a gettare occhiate fugaci ad Hawks, che ancora non si era mosso dalla sua posizione. Non lo aveva mai visto in quelle condizioni. 
La polizia accorse sul luogo una volta che tutto sembrò essersi calmato. Ad Endeavor spettò il compito di fargli il resoconto della situazione e di supervisionare agli arresti. Molti dei villain che avevano attaccato erano ormai incoscienti, dei pochi coscienti che ne rimanevano solamente alcuni provarono a fare resistenza all'arresto, ma i loro tentativi furono soffocati sul nascere dalla sola presenza di Endeavor. Separati, avevano perso tutta l'arroganza che avevano dimostrato durante il combattimento. Si erano precipitati in strada tutti insieme, in mezzo al caos del sabato pomeriggio, esattamente come avevano fatto in più di una occasione nei mesi precedenti. Scatenavano il panico, derubavano le persone e svaligiavano i negozi. Erano tutti criminali di bassa lega che avevano preso coraggio grazie alle azioni della League of Villains e dalla caduta di All Might.
Terminate le operazioni, Enji si avvicinò nuovamente ad Hawks. Miruko era accovacciata di fronte a lui, cercava di convincerlo ad alzarsi, ma ogni volta che provava a toccarlo, Hawks scattava, si allontanava come colpito da una scossa elettrica per poi tornare alla sua precedente posizione, accovacciato su sé stesso. 
Vedendolo avvicinarsi, Miruko si alzò dalla sua posizione e lo raggiunse. Aveva un taglio profondo sullo zigomo e la guancia ricoperta di sangue. 
"Non riesco a convincerlo a muoversi di qui," disse. 
"Si sa che cos'abbia?" chiese Enji, cercando di mantenere una voce neutra. 
Prima che Miruko potesse rispondere, come risvegliato dalla sua voce, Hawks alzò gli occhi dalla crepa nell'asfalto e li fissò su Endeavor. Guardava Endeavor come se fosse l'unica cosa ad avere senso nel caos che lo circondava, pronunciò il suo nome in un sussurro meravigliato. Endeavor lo guardò perplesso e turbato per un momento, fino a che Miruko non gli diede una piccola spinta nella sua direzione. Enji fece un passo avanti in maniera incerta, e andò ad accovacciarsi davanti ad Hawks, che continuava a guardarlo con gli occhi spalancati. Non sapeva cosa fare davanti a quello sguardo. Catalogò mentalmente le sue ferite. Aveva qualche graffio sul volto e sulel spalle, dove i vestiti si erano strappati nell'impatto con il terreno, e le sue ali erano arruffate. 
"Devi farti controllare," disse.
Si aspettava di vederlo irrigidirsi, ma Hawks si limitò ad annuire e ad allungare una mano. Enji la prese e lo aiutò ad alzarsi. Lo accompagnò ad una delle postazioni mediche che erano state prontamente sistemate sul luogo e si sistemò in un angolo della tenda mentre trattavano le ferite di Hawks, attento a non uscire mai dal suo campo visivo. 
Un infermiere si avvicinò ad Endeavor, per convincerlo a trattare le sue ferite, ma Enji lo allontanò in malo modo. Non aveva alcuna intenzione di allontanarsi da lì e lasciare Hawks da solo. Una volta che ebbero finito di medicarlo, Hawks si avvicinò autonomamente ad Enji, come se avesse bisogno di un punto fermo a cui aggrapparsi. I suoi passi erano incerti, sembrava dovesse cadere faccia a terra da un momento all'altro.
Endeavor lo prese per la vita, "Ti accompagno a casa." 
Fosse stato un giorno normale, Hawks lo avrebbe preso in giro, avrebbe fatto una delle sue battutine e tirato fuori qualche doppio senso da quella frase ed Enji gli avrebbe detto con fare burbero di smetterla con i suoi giochetti, ma Hawks avrebbe continuato a ridacchiare comunque. Era così che funzionavano. Ma non quel giorno. Quel giorno Hawks rimase in silenzio e si lasciò guidare alla macchina che uno dei suoi assistenti aveva procurato per Endeavor. 
Non era la prima volta che Enji si ritrovava ad accompagnarlo a casa dopo un intervento. Per quanto si mostrasse superficiale, rarametne Enji aveva visto qualcuno disposto a rischiare tanto per tenere tutti al sicuro durante un attacco. Una colta arrivati, però, riuscire a farsi dire il numero dell'appartamento da Hawks fu più complicato, ma alla fine Enji ci riuscì e lo accompangò fin dentro casa.
Era la prima volta che si ritrovava nel suo appartamento, e lo sguardo gli cadde sulla merch di Endeavor che aveva sparsa in giro - c'era un cuscino sul divano, un poster attaccato al muro, alcune action figures sulla libreria e accanto al televisore. Enji non ispezionò oltre. Era sicura che, a guardare meglio, ne avrebbe trovata altra, ma vedere quegli oggetti gli stava già stringendo lo stomaco. Per non parlare del fatto che si sentisse di star invadendo la sua privacy. 
Enji accompagnò Hawks in camera da letto e lo aiutò a sdraiarsi sul letto. Lo vide allungare la mano sotto al cuscino e mettersi a cercare qualcosa con la fronte arricciata. 
"Che ti è successo, Hawks?" chiese, non aspettandosi una risposta. 
"Hawks..." ripetè quello. "E' mio nuovo nome... Il mio nome" 
Enji lo guardò confuso, Hawks non aprì gli occhi, ma ridacchiò. "Non fare quella faccia. So chi sono, so dove sono... Solo- è come se non fossi davvero qui, come se fossi un bambino che vede cosa gli riserva il futuro. E' complicato... distinguere. Credo sia un quirk, qualcosa che riporta all'infanzia forse? Ma mi ha colpito solo a metà"
Enji si ripromise di fare ricerche al riguardo, ma non adesso.
"Dovresti dormire, non pensare ai quirk"
Hawks annuì. Da sotto il cuscino tirò fuori un peluche di Endeavor, era vecchio, consumato, i colori vagamente sbiaditi per via dei lavaggi. Se lo strinse al petto e sospirò rilassato. Il suo volto si distese. Agli occhi di Endeavor non era mai sembrato così giovane.
"Sai che hai arrestato mio padre?" gli disse con la voce piena di sonno. "Non ti ho mai ringraziato" la sua voce si affievolì, il respiro si regolarizzò.
Enji gli accarezzò i capelli. "Buonanotte"
 
 
"
 
chasing_medea: (Default)
Titolo: we gonna let it burn
Fandom: BNHA
Missione: Carretto dello zucchero filato - qualcosa di leggero
Rating: safe
Parole: 1099



Hawks studia il proprio riflesso nello specchio del camerino. Due delle lampadine sulla cornice sinistra sono fulminate, le altre proiettano una luce fioca e rossastra.

Uno dei triangoli che ha disegnato con l’eyeliner sotto l’angolo interno dell’occhio ha il bordo irregolare. Hawks si avvicina allo specchio per sistemarlo, poi ricade pesantemente sulla sedia di plastica pieghevole. 

Non è ancora abituato a vedere i suoi capelli di un paio di toni più chiari del suo biondo naturale, ma non ha tempo di restare lì a studiare il suo riflesso e pensare a quanto sia cambiata la sua vita nel giro di pochi mesi. Lo spettacolo sta per cominciare.

I corridoi sono deserti, il calore quasi soffocante nel tendone. Avvicinandosi al palco la musica si fa sempre più forte, accompagnata dal mormorio degli spettatori che prendono i loro posti. 

Hawks sente lo scatto secco delle luci che si spendono, le voci si quietano e una nuova silenziosa eccitazione comincia a riempire ogni angolo del teatro, come spifferi di freddo invernale da ogni fessura. 

Quando Hawks raggiunge la sua postazione sul fondo del teatro, avvolto nelle tenebre dietro l'ultima fila di sedili, la pedana rialzata davanti a lui è ancora avvolta nell'oscurità. Gli unici punti di luce vengono da alcuni spettatori che non hanno ancora spento i loro cellulari. 

Le porte che danno sulla pedana si aprono di colpo. La prima cosa che vede è una sagoma interamente nera che si staglia contro un muro di fiamme.

La figura viene avanti, i fari si accendono, Hawks ha la bocca secca. 

Enji, l'Endeavor, è un uomo di un'altra categoria.

Lo ha pensato quella mattina, quando, facendogli un'imboscata nel suo ufficio, lo aveva trovato con una larga maglietta bianca dallo scollo a v tenuto morbidamente insieme da dei lacci color cuoio e circondato da scartoffie, e lo pensa adesso, che lo vede nel suo costume di scena. 

Enji fa roteare intorno al suo corpo un bastone con entrambe le estremità in fiamme. Cammina con passo sicuro, il suono degli stivali al ginocchio sulla pedana rimbomba nel silenzio del teatro. Raggiunge il centro della pedana e soffia sulle fiamme. La colonna di fuoco che si innalza sembra riempire l'intero teatro, la musica parte, epica e profonda, l'onda d'urto di calore raggiunge Hawks, nascosto sul fondo, e Hawks non è sicuro che dipenda solo dal fuoco.

Il gilet di pelle sembra troppo stretto sulle spalle di Enji, gli lascia scoperte le braccia muscolose - ognuna gli sembra grossa quanto lui e Hawks freme sul posto - i pantaloni attillati mostrano ogni curva dei muscoli. 

Endeavor aggiunge un secondo bastone al primo, i giochi si fanno più articolati. Una seconda colonna di fuoco si innalza dalla sua bocca e, su un colpo secco della musica, dal soffitto cadono due teli di un rosso cremisi.

Hawks recupera la concentrazione in un attimo. Comincia a scendere i gradini degli spalti fino a ritrovarsi ai piedi della pedana. Enji guarda in basso verso di lui e allunga la mano, Hawks la afferra e si lascia sollevare sulla pedana. 

Hawks gli sorride e, per non farsi mancare niente, gli ruota intorno un paio di volte, facendo scivolare una mano sulla pelle del suo petto, lasciato scoperto dal gilet, e sulle sue spalle. Hawks si gode l'espressione corrucciata sul viso di Enji davanti a quella deviazione dal copione, poi si allontana da lui di scatto, come se fosse un amante capriccioso che finge disdegno, e raggiunge i suoi teli.

Hawks accarezza la stoffa leggera, la consistenza è confortevole sulle sue mani. Sa di calore, di libertà. 

Hawks afferra ogni telo con una mano, comincia a correre in cerchio sul bordo esterno della pedana fino a prendere ritmo, fino a sentire i suoi piedi pronti a staccarsi dal pavimento, e allora salta. La gru che tiene i teloni solleva il braccio, alza i teli. Hawks sente la stoffa leggera gonfiarsi dietro di lui ed è come volare. Il suo corpo si libra leggero in aria, il suo cuore è leggero nel petto. I pesi sulle sue spalle rimangono a terra, non c'è posto per loro lassù, e Hawks si sente sorridere, uno dei pochi sorrisi onesti che ancora gli rimane.

Avvolge sapientemente i teli intorno al suo corpo, lo piega in figure splendide che lasciano gli spettatori a bocca aperta, poi si lascia cadere, fidandosi del fatto che i suoi teli lo reggeranno. Si fida di loro, si fida della propria capacità di legarli, una delle poche certezze che gli resta, un ultimo legame rassicurante e non soffocante - sostenuto, non ingabbiato.

La musica si avvicina alla fine, la stanchezza comincia a sentirsi. Hawks slega i teli, lascia che si gonfino dietro di lui, come le ali che sognava di avere da bambino.

I suoi piedi toccano di nuovo terra, e solo allora Hawks ricorda dove sia, grazie allo scroscio di applausi che arriva ovattato alle sue orecchie. Si inchina, sorride come se quello che ha fatto non fosse niente di speciale. Nota che Enji non è più sulla pedana, non sa quando sia andato via. 

Ha il fiatone quando mette piede dietro le quinte. Enji è lì, ha le braccia incrociate e gli occhi fissi su di lui. Il trucco scuro fa risaltare ancora di più il blu profondo dei suoi occhi.

“Che ci fai veramente qui?” chiede secco, la sua voce è un rombo sotterraneo, fa vibrare tutto ciò che lo circonda, Hawks compreso.

“Te l’ho detto,” Hawks sfodera il suo tono più seducente e sbatte le palpebre nella sua direzione un paio di volte, “ho sempre voluto unirmi a un circo.”

“Nessuno vuole unirsi a un circo”

Hawks si rabbuia. Pensa a suo padre che ha deciso di farsi sparare un bel giorno, pensa a sua madre che passa la sua vita a cercare di ripagare i debiti che si è lasciato alle spalle anche a costo di dimenticarsi di lui. Pensa che non vuole finire così, al fatto che farebbe di tutto per andarsene, anche infilarsi nell'ufficio del direttore di un circo che non conoscerlo e convincerlo a dargli una chance, anche se soltanto per una sera. “Ho bisogno di sparire da questa città, almeno per un po’,” ammette.

Enji sposta lo sguardo e lo riporta sul centro della pedana, dove gli artisti del numero successivo hanno già cominciato ad affollarsi. Hawks fa per andare via.

“Porterai guai, non è così?” lo ferma Enji.

“E’ probabile”

“Domani mattina partiamo alle sei. Dal prossimo spettacolo sarai uno dei numeri di chiusura.”

E’ la cosa più vicina ad un benvenuto in famiglia che Hawks può avere. Lo sa. Gli scalda il petto comunque. 


chasing_medea: (Default)
Fandom: Haikyuu [SakuAtsu[
Missione: M3 - Sereno/Oscurità
Parole: 7148
Rating: safe




La prima volta che Kyoomi lo vide la luce del sole che passava attraverso le chiome degli alberi proiettava sul suo viso un gioco di luci ed ombre. 

Sakusa, diretto alla Sala dei Troni, si fermò di colpo, incapace di staccare gli occhi da lui. Aveva la schiena appoggiata al tronco di un gelso nero, gli occhi chiusi e le braccia dietro la testa. Accanto a lui uno dei torrenti che scorrevano sull’Olimpo curvava e proseguiva il suo percorso. La serena luce dell’Olimpo gli donava. Intorno a lui, ninfe e naiadi si affaccendavano, ridendo e parlando tra di loro. 

Kyoomi venne riportato alla realtà da qualcosa che gli veniva addosso. Abbassò lo sguardo, e vide un satiro che si stava rialzando da dove era caduto. Lo vide alzare lo sguardo verso di lui con fare infuriato, per poi riconoscerlo e sbiancare. Il fauno scattò in piedi e si inchinò davanti a lui,

“Mi scusi mio signore,” disse. “Non guardavo dove stavo andando.”

Kyoomi gli fece un breve cenno di assenso, e quello si inchinò ancora e andò via per la sua strada. Kyoomi riportò nuovamente gli occhi sul giovane. La confusione aveva attirato la sua attenzione, e adesso stava guardando nella loro direzione con fare curioso, i suoi occhi incontrarono quelli di Kyoomi. 

“Atsumu?” sentì una delle ninfe chiamarlo, e Atsumu riportò gli occhi su di lei.  

Quindi quello era il suo nome. Kyoomi si costrinse a distogliere lo sguardo da lui, approfittando della distrazione, e a continuare il suo cammino. L’Olimpo intorno a lui era il ritratto della serenità, con i suoi ruscelli e boschetti. Gruppi di ninfe e naiadi danzavano accanto ai loro domini, una dolce musica si spargeva nell’ambiente a partire dalla piazza in cui si riunivano le Muse, circondate da statue dei poeti che avevano ispirato nei secoli. Cantavano le gesta degli eroi a cui avevano assistito. 

L’Olimpo era il ritratto della serenità da cui Kyoomi era stato escluso centinaia di anni prima.  

La Sala dei Troni era al centro esatto dell’Olimpo, da lì si dipanavano a raggio sentieri e strade che conducevano in ogni direzione si potesse desiderare. Il marmo bianco di cui era fatta era accecante per i suoi occhi così abituati all’oscurità, Un colonnato circolare proteggeva dodici troni dello stesso marmo bianco disposti in cerchio, un tredicesimo trono, il suo, di granito nero occupava il vertice basso del cerchio. Kyoomi sapeva che quel trono sarebbe stato rimosso non appena lui avesse messo piede fuori dall’Olimpo e gli altri troni sarebbero stati disposti nuovamente nella loro tradizionale posizione a ferro di cavallo, con i troni di Zeus ed Era al centro. 

Il Concilio degli Dei stava per cominciare, ma ancora nessuno dei suoi familiari era giunto sul posto. Il Concilio si teneva ogni anno, ed era l’unica occasione in cui Kyoomi saliva sull’Olimpo, nonostante la sua presenza mettesse la sua famiglia sulla difensiva era l’unica occasione da cui non erano riusciti ad escluderlo. La sua presenza non faceva che ricordare ai suoi familiari l’esistenza stessa dell’oscurità: qualunque cosa potessero fare, qualunque inganno potessero architettare, qualunque eroe potessero decidere di sostenere, tutto sarebbe finito nel regno di Kyoomi, dove nulla di tutto quello aveva importanza. La presenza di Kyoomi non faceva altro che ricordare ai suoi fratelli la vanità delle loro dispute e del loro orgoglio, e ogni volta facevano il possibile per evitarlo. Con un sospirò, Kyoomi occupò il suo trono e si rassegnò ad aspettare. 




Tornare nel proprio regno fu un sollievo per Kyoomi. 

Sulla strada del ritorno, dopo la fine del Concilio, Kyoomi era tornato sui suoi passi, percorrendo la stessa strada che aveva percorso all’andata. La speranza, non ammessa ad alta voce neanche a sè stesso, era stata quella di poter rubare un’altra occhiata di quel ragazzo, ma lui non era più lì. Il boschetto era silenzioso, il ruscello continuava a scorrere senza che nessuno stesse lì ad ascoltarlo. Kyoomi aveva seppellito la delusione nello stomaco, si era detto che era meglio così e, adesso che era finalmente a casa, non vedeva l’ora di mettersi quella storia alle spalle. 

Era stato solo un momento di follia, uno che non avrebbe avuto conseguenze, si era detto. Adesso sarebbe potuto tornare ai propri affari, al proprio lavoro, al silenzio del proprio regno. 

Nei giorni seguenti, però, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva l’immagine di quel ragazzo. Il modo in cui i suoi lineamenti apparivano rilassati mentre si godeva la calma dell’Olimpo, in cui il bronzo della sua pelle risultava ancora più evidente baciato dai quei pochi raggi di luce che penetravano attraverso le chiome degli alberi. E soprattutto il modo in cui i suoi occhi si erano soffermati sulla figura di Sakusa, in quell’unico momento in cui aveva guardato nella sua direzione, e ogni volta il suo cuore aumentava il ritmo dei propri battiti, dando l’impressione che il suo petto fosse troppo stretto per contenerlo. 

Kyoomi stava perdendo il controllo dei propri pensieri, e la sensazione non gli piaceva per niente. Sapeva cosa volesse dire tutto quello, aveva più familiarità con quei sentimenti di quanto gli sarebbe piaciuto avere. Per mano dei suoi fratelli, aveva visto troppi finire nel suo regno prima che fosse giunto il loro momento — ancora ricordava il disordine gettato sul suo regno dalla guerra di Troia — e se c’era qualcosa che aveva giurato a sè stesso quando era stato relegato in quell’angolo di mondo, era che lui non sarebbe mai stato come il resto della sua famiglia. 

Resistette tre giorni prima di rompere una delle regole che aveva imposto su sé stesso. Era sdraiato a letto, impossibilitato a prendere sonno nonostante la stanchezza accumulata, quando gli venne in mente ancora una volta il volto di quel giovane. Le sue difese erano troppo basse, e il suo buon senso troppo stanco: senza pensare troppo a quanto stesse facendo, fece ricorso ai propri poteri da dio, amplificò la propria percezione fino a trovare il ragazzo e lo osservò per qualche attimo. 

Sulla terra era giorno, registrò rapidamente Kyoomi. La visione non era chiara, una serie di immagini sfocate, ma l’immagine di lui, al centro del quadro, era chiarissima. Sembrava essere in un campo di grano, sdraiato in mezzo alle spighe, sotto un cielo azzurro come Kyoomi non ricordava più potessero esistere. Intorno a lui si accerchiavano persone troppo sfocate per essere riconosciute. Lui stava sorridendo apertamente, con gli angoli degli occhi semichiusi arricciati. Era la prima volta che Kyoomi lo vedeva ridere, e il cuore nel petto non aveva mai battuto così velocemente. Lo vide aprire la bocca e dire qualcosa, e Kyoomi   desiderò essere lì anche lui, scoprire che suono avesse la sua voce, come suonasse la sua risata, 

Sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, ma vederlo così, sereno e rilassato, stava facendo rilassare anche lui. Si sarebbe accontentato di quello, e dopo quella sera non lo avrebbe fatto mai più.

Si addormentò in poco tempo e con un accenno di sorriso sulle labbra. Sognò campi di grano e ruscelli d’acqua limpida che scorrevano in fruscii delicati. 




Doveva essere solo per una volta, ma in breve tempo divenne un’abitudine. Arrivato il momento di dormire, Kyoomi si stendeva a letto, non riusciva a prendere sonno e, che lo volesse o meno, tornava a cercarlo. Vederlo aveva qualcosa di rasserenante. Qualcosa nella sua figura faceva distendere i muscoli tesi delle spalle e del collo, contratti dopo l’ennesima giornata passata tra scartoffie e processi alle anime appena giunte, che dovevano essere collocate nel posto giusto. 

Eppure qualcosa in quelle visioni diventava ogni giorno più doloroso. Ogni volta che lo vedeva ridere o parlare, sentiva una corda tirare il suo cuore nella sua direzione. Il desiderio di alzarsi dal letto e andare a sentirlo di persona diventava ogni giorno più forte, più irrefrenabile. 

Una sera Kyoomi si chiese anche se non sarebbe stato meglio non sapere, non sapere se stesse ridendo e non soffrire per il fatto di non conoscere il suono della sua risata, ma in breve la sua mente fu in preda all’angoscia. E se gli fosse successo qualcosa e Kyoomi non l’avesse saputo? Era meglio avere quel poco che poteva avere, ma almeno accertarsi che stesse bene. 

Nuovamente allargò le proprie percezioni fino a sentire la sua presenza. Sulla terra era notte, e lui stava bene, accanto a lui c’era un ragazzo di cui Kyoomi non riusciva a riconoscere i lineamenti. I due erano sdraiati vicini accanto a un ruscello, guardavano le stelle probabilmente. L’espressione sul suo viso era diversa da qualunque altra avesse mai visto. Era adorante, ma con un fondo di sofferenza che Kyoomi non riusciva a identificare. Vide il ragazzo guardare in basso, verso le loro mani distese sull’erba, vicine ma non a contatto. Poteva vedere nei suoi occhi il desiderio di chiudere quella distanza e intrecciare le loro dita. Qualcosa detta dal ragazzo con i capelli scuri richiamò la sua attenzione, e Atsumu riportò lo sguardo sul viso dell’altro. Sorrise di qualcosa che il ragazzo aveva detto, ed era la cosa più distante che Kyoomi avesse mai visto dal suo sorriso. 

Irrazionalmente provò l’istinto di distruggere la persona che gli stava causando quella sofferenza. 

Kyoomi interruppe improvvisamente la visione e scattò sul letto. Il cuore gli batteva all’impazzata, ma con una pesantezza diversa. Non era lo sfarfallio leggero che gli causava la vista della risata di Atsumu, era la pesantezza dell’orrore. Quello che aveva pensato— Era qualcosa che avrebbero fatto i suoi familiari, gli altri dei, non lui. Stava diventando come loro, pensò con il panico che gli attanagliava lo stomaco e prendendosi la testa tra le mani, stava diventando come aveva promesso a sé stesso che non sarebbe mai diventato. 

E c’era un’altra pesantezza sul suo petto, una che non voleva ammettere davanti a sè stesso. Era un dolore sordo e profondo. Il fatto che non fosse sorpreso dal fatto che Atsumu avesse già qualcuno nel suo cuore non significava che non facesse male saperlo. Desiderò non aver mai guardato, aver seguito il suo primo istinto e rimanere all’oscuro di tutto. Ma soprattutto lo raggiunse una realizzazione, profonda e definitiva. Qualunque cosa quella fosse doveva finire. 

Si alzò dal letto e si rimise alla sua scrivania. Quella notte non avrebbe dormito, tanto valeva portarsi avanti con il lavoro. 




Kyoomi riuscì a resistere per qualche giorno, a prezzo di difficoltà a prendere sonno e nottate agitate. Ma la preoccupazione un giorno ebbe la meglio. Voleva assicurarsi che chiunque fosse quella persone, facesse stare bene Atsumu. Era l’unico ad avere il potere di cancellare quella tristezza dai suoi occhi in quel momento e, contro ogni istinto di autoconservazione, in fondo Kyoomi sperava che lo facesse. Provò a guardare, giusto un controllo per sapere come se la passa, si disse. Quello che vide, però, gli fece riconsiderare tutti i propositi precedenti. 

Atsumu era steso sull’erba, e questa volta era solo. Il cielo nuvoloso non permetteva di vedere le stelle. Non c’era alcun accenno di sorriso sul suo viso, chiuso in una maschera di compostezza separata. Gli occhi erano ancora lucidi. 

Kyoomi non ci pensò due volte, si alzò dal letto, recuperò il suo mantello e il suo elmo dell’invisibilità. Salì sulla terra e, senza farsi notare, si avvicinò ad Atsumu. Atsumu non lo sentì arrivare. Da vicino il suo volto aveva i lineamenti delicati, i capelli biondi come il grano di cui era solito circondarsi tradivano la sua discendenza dalla dea della natura. 

Kyoomi provò a pensare a cosa potesse fare per farlo stare meglio, anche solo in parte, e l’unica cosa che gli venne in mente fu fare la stessa cosa che Atsumu aveva inconsapevolmente fatto per lui: dargli un punto di luce nell’oscurità della sua dimora. 

Convocò le lucciole, da sempre compagne della sua oscurità e guardiane delle entrate dell’oltretomba, e le inviò ad Atsumu, ancora steso sull’erba.

In breve, Atsumu fu circondato da uno sciame di luce, rischiarando il suo viso. Atsumu le guardò rapito, seguendo la traiettoria del loro volto con gli occhi pieni di meraviglia. Un sorriso cominciò a crescere sulle sue labbra, rasserenanando i suoi lineamenti. E Kyoomi, nascosto nell’oscurità rimase ad osservare quel viso che a poco a poco tornava quello che era sempre stato. 

Se la sua teoria era giusta, se veramente Atsumu stava soffrendo per amore, non sarebbe bastato quel poco a farlo stare meglio, ma almeno Kyoomi aveva la consapevolezza di stargli regalando un momento di serenità nell’oscurità della notte. 

Poteva sentire l’alba avvicinarsi, e Kyoomi avrebbe voluto poter bloccare il tempo per poter restare in quel momento ancora un attimo. 

L’arrivo dell’aurora fece allontanare le lucciole, ma il viso di Atsumu rimase sereno. Kyoomi cercò di rimanere quanto più possibile, anche quando il primo raggio di sole spuntò all'orizzonte ferendogli gli occhi ormai troppo abituati all’oscurità, Kyoomi rimase. Atsumu non sembrava intenzionato a muoversi da quel punto. 

Era la prima volta che Kyoomi aveva la possibilità di guardarlo così da vicino. Le sue visioni non erano in grado di tenere testa a quello che adesso si trovava davanti. Atsumu in carne e ossa, vicino. Poteva sentire il sottile rumore del suo respiro e il suo cuore ancora anelava di sentire una risata uscire da quelle labbra, ma il sole cominciava ad essere alto e il dolore insopportabile. Kyoomi ritornò al suo regno, con il corpo che già fremeva per voltarsi e tornare ancora una volta sulla superficie. 




La visita sulla superficie riaccese in Kyoomi il desiderio di luce. Se prima si limitava a spiare cosa accadesse sulla superficie nei momenti prima di addormentarsi, adesso si ritrovava spesso a distrarsi durante il lavoro per sbirciare cosa stesse accadendo. Il desiderio di luce si mescolava alla preoccupazione per Atsumu, rendendogli quasi impossibile restare concentrato sul proprio lavoro. 

La preoccupazione per Atsumu continuava a crescere. Erano giorni che non lo vedeva ridere, i sorrisi che rivolgeva agli altri nei momenti in cui non era solo erano circostanziali, freddi e non raggiungevano i suoi occhi. Kyoomi era infuriato, come potevano le persone intorno a lui non accorgersi di quanto Atsumu stesse soffrendo era un mistero per lui. Tutti avrebbero dovuto fermare quello che stavano facendo e correre da lui, prendersi cura di lui. Esattamente come avrebbe voluto fare lui che non poteva, che era costretto così lontano.

Il punto di rottura, Kyoomi lo raggiunse in una giornata di sole. In un prato immenso, Atsumu stava raccogliendo fiori. Il suo viso era più rilassato di quanto Kyoomi non lo avesse visto negli ultimi giorni, ma le occhiaie erano pesanti, scure e profonde anche sulla sua pelle baciata dal sole. Atusmu non era da solo, occasionalmente scambiava qualche parola con qualcuno nelle vicinanze, ma Kyoomi non poteva vedere chi altri fosse con lui. Kyoomi vide Atsumu alzare lo sguardo, sorridere a qualcuno con quel sorriso di cortesia che aveva imparato a rendere impeccabile nei giorni precedenti, poi lo vide abbassare nuovamente la testa e restare fermo per qualche momento, fissando un fiore che non riusciva a vedere attraverso il velo di lacrime che copriva i suoi occhi e che stava cercando disperatamente di non far cadere. Le sue labbra erano strette in una linea sottile. L’espressione sul suo viso in quel momento ruppe il cuore il Kyoomi. Non poteva sopportare di vederlo così. 

Si alzò di scatto dalla sua scrivania e andò verso il carro. Sarebbe andato contro l’ultima delle regole che aveva imposto a sé stesso, avrebbe fatto quello che i suoi fratelli avevano già fatto in precedenza, quello che aveva mandato tante anime nel suo regno prima che fosse il momento giusto, ma in quel momento nulla importava, se non portare Atsumu via da quel luogo, da quel posto che tanto lo stava facendo soffrire. Anche solo per un momento. 

Di passaggio, accarezzò la testa a Cerbero, seduto fedelmente davanti al suo ufficio come ogni altro giorno. I cavalli erano già pronti, scalpitavano per partire, sbuffando e scalciando il terreno. Kyoomi li accarezzò prima di montare sul carro e dargli il segnale per partire.

Partirono al galoppo con la furia di chi era fermo da troppo tempo. Kyoomi corse, corse più veloce di quanto non avesse mai fatto eppure gli sembrava di essere troppo lento. Contava i secondi che mancavano per emergere sulla superficie e continuavano a sembrargli troppi. Dietro il carro sentiva Cerbero correre, il respiro corto per la fatica, ma poteva sentire la gioia del cane a tre teste di poter finalmente correre libero.  




Le spighe circondavano Atsumu fino all’altezza delle cosce, ma mai come in quel momento avrebbe voluto che fossero abbastanza alte da nasconderlo interamente dal mondo intero. Era stanco di nascondere i segni delle notti insonni dietro un sorriso, era stanco di doverlo vedere tutti i giorni e fare finta che tra di loro le cose andassero bene, come se due giorni prima non lo avesse visto rotolarsi nell’erba accanto al ruscello con una naiade. Come se il suo cuore non fosse andato in frantumi.

Si era sempre detto che gli stava bene così, che tenere quell’affetto chiuso nel proprio petto sarebbe stato abbastanza per lui, ma a quanto pare aveva mentito a sè stesso. Era stato ingordo, aveva voluto di più. Se non lo avesse fatto, se non fosse andato a cercarlo, starebbe ancora vivendo nella splendida illusione delle possibilità inesplorate, non nel mondo reale dei vicoli ciechi. 

In mezzo alle spighe, Atsumu vide un punto rosso. Si avvicinò e lo trovò lì, un papavero che era riuscito a crescere in mezzo alle spighe, che nonostante tutto era riuscito a fiorire. Intorno a lui non aveva nessuno della sua specie. Si soffermò a guardarlo per qualche momento, non riuscendo a non pensare che fosse un segno degli dei. Quante probabilità c’erano di trovare in quel luogo il fiore della consolazione? Mentalmente mandò una preghiera agli dei.

Sentì la sua voce chiamarlo, era distante da lui. Gli stava dicendo che loro sarebbero andati avanti, che lo aspettavano più avanti. I suoi capelli nerissimi erano mossi da una sottile brezza. Atsumu mise su il suo sorriso più convincente e li lasciò andare via.

Si chinò nuovamente sul papavero, ma il velo di lacrime che copriva i suoi occhi ne offuscava i contorni, rendendolo solamente una sfocata macchia rossa. 

Avrebbe voluto rimangiarsi la preghiera che qualche attimo prima aveva rivolto agli dei. Se non si fosse fermato a osservare quel fiore forse non avrebbe dovuto sentire la sua voce, non si sarebbe dovuto ricordare di quando gli aveva sentito sussurrare dolci parole ad una ninfa dai capelli rossissimi sulle rive di un ruscello, appena qualche notte prima. Il suo tono di voce era stato delicato come non lo aveva mai sentito, la ruga sulla fronte che aveva sempre addosso appianata per qualche momento, il viso più disteso di quanto non lo avesse mai visto. 

Atsumu si chinò verso il fiore, lo afferrò e con forza, ira e sdegno lo strappò dal terreno. Avrebbe voluto buttarlo a terra e calpestarlo fino a che non fosse rimasta una poltiglia informe, impossibile da riconoscere, impossibile da far rinascere. Solo una macchia in un campo di grano che presto avrebbe dimenticato la sua presenza. 

Il boato cominciò a crescere da sotto i suoi piedi, prima distante e poi sempre più vicino. Faceva tremare la terra, e Atsumu era instabile sulle sue gambe. Cercò di mantenere l’equibrio, ma si trovò comunque ad indietreggiare. Il cuore gli batteva all’impazzata, il terrore gli faceva sentire le gambe molli. Avrebbe voluto correre, ma sentiva che nessun muscolo del suo corpo rispondeva ai suoi comandi. 

La fessura da cui aveva strappato il fiore cominciò ad allargarsi. Aveva scatenato l’ira degli dei disprezzando il loro dono? Atsumu cominciò a pregare, a chiedere perdono. La fessura si allargò fino a diventare uno squarcio nel terreno. Ne saltò fuori un carro nero, le gemme che lo adornavano rilucevano sotto la luce del sole, rendendolo splendente come una notte stellata, L’occupante del carro indossava un’armatura interamente nera, decorata con le stesse gemme, splendenti nell’oscurità che li circondava. Sembrava fuori posto in un campo di grano, contro il cielo sereno.

La figura si sporse dal carro senza farlo rallentare, afferrò Atsumu per la vita e lo caricò sul carro accanto a lui.  Atsumu urlò, ma nessuno era abbastanza vicino da sentirlo, erano tutti andati avanti senza di lui. Urlò ancora nel deserto.

Il carro si tuffò nuovamente nello squarcio da cui era saltato fuori, e poi fu solamente il buio. 




Quando Atsumu si svegliò, il primo pensiero fu che dovesse essere ancora notte. La camera in cui si trovò era lussuosa, il letto su cui era sdraiato morbido, ma l’unica luce nella stanza proveniva da alcuni bracieri sparsi lungo le mura, che davano alla stanza contorni spettrali e cupi. Gli ci volle qualche momento per accorgersi che, nella stanza, non c’erano finestre. Trovò la porta e uscì dalla stanza, con il cuore in gola e un velo di sudore freddo sulle mani. Si trovò in un lunghissimo corridoio, il pavimento di marmo nero striato di bianco rifletteva le fiamme che crepitavano nei bracieri. Sembrava andare avanti  all’infinito. Atsumu, dopo un attimo di incertezza, scelse di andare a sinistra.

Camminò un po’ prima di vedere un portone alla sua destra. Era maestoso, finemente ricamato con scene inquietanti che fecero annodare lo stomaco ad Atsumu, raccontava storie di amanti separati, di guerre, di devastazione e sofferenza. Numerose gemme adornavano il metallo, punti luce di ogni sfumatura di colore l’occhio fosse in grado di percepire. 

Atsumu capì in quel momento dove fosse. L’oltretomba, la dimora del re degli inferi. Si ricordò degli avvertimenti di sua madre su quel posto: non fidarti dei doni del sottosuolo, non mangiarne i frutti, non cercare di fuggire, l'uscita va guadagnata. 

Aprì il portone e si ritrovò in una sala grande, il soffitto maestoso ricordava quello di una grotta in riva al mare, cristalli viola illuminavano la volta. In fondo alla sala, invece del trono che Atsumu si sarebbe aspettato, vide una pedana rialzata, numerose scartoffie erano accumulate lì. Il re degli inferi, con la testa abbassata stava scrivendo qualcosa. 

Alzò la testa quando sentì aprì la porta e sul suo volto si dipinse un’espressione che Atsumu non riuscì ad interpretare. Il dio si alzò dalla sua postazione, scese le scale della pedana fino a raggiungere il pavimento e cominciò a camminare verso di lui. 

La sua presenza era maestosa, la sua figura imponente. Atsumu si ritrovò con i piedi incollati al pavimento, impossibilitato a fare anche un solo passo. 

Era la prima volta che Atsumu si ritrovava così vicino ad uno degli dei maggiori che non fosse sua madre. 

Più il re degli inferi si avvicinava più Atsumu vedeva quanto fosse diverso da quanto avesse immaginato.  Le statue lo avevano sempre rappresentato come una figura anziana e burbera, ma quello che vide davanti a lui non poteva essere più diverso. Aveva i capelli nerissimi e la pelle di porcellana appariva liscia e levigata, come quella di una statua. Aveva il portamento serio e dignitoso di chi indossa il proprio potere come una seconda pelle. Lui era il signore di tutto quello che era lì, e non permetteva a nessuno di dubitarne. 

Solo quando il dio arrivò vicino a lui e si fermò, Atsumu lo riconobbe. Si erano già incontrati, per un breve momento, mesi prima sull’Olimpo. E ripensò a quello che aveva pensato allora: la bellezza che si trovava davanti era eterea, devastante, distante irraggiungibile. Aveva la bellezza devastante di un temporale, possibile da osservare solo da lontano mentre ridefiniva i contorni del mondo. 

Qualcosa spinse Atsumu a fare qualche passo avanti, ad avvicinarsi al dio.

Quando fu vicino, esattamente come quella volta, non riuscì a staccare gli occhi dai suoi. Sapeva che avrebbe dovuto inchinarsi, ma il suo corpo non rispondeva ai suoi comandi. Il dio non sembrò risentirsi. Atsumu potè vedere una punta di paura nei suoi occhi quando si decise finalmente a parlare. Sembrava a disagio sotto lo sguardo di Atsumu, e sembrava frenarsi dal fare qualunque movimento che potesse spaventarlo. 

“Sei sveglio,” disse solo. 

La sua voce risuonò contro le alte pareti di marmo, contro il soffitto a volta della sala del trono. 

“Non so perchè sono qui”

“Per governare con me questo posto”

Atsumu sentì la propria bocca seccarsi, incapace di dare un senso a quelle parole. 

“Non credo di essere la persona che state cercando,” rispose con quanta più cortesia possibile. Atsumu si inchinò e uscì dalla stanza.  


__________________________________________________________________________________


La camera che gli è stata assegnata è la camera più lussuosa che Atsumu abbia mai visto. Al seguito di una seconda ispezione, Atsumu può notarlo meglio di quanto avesse fatto a primo impatto. La paura è ancora forte in lui, ma almeno adesso sa di non essere in pericolo immediato. La camera è decorata con gemme brillanti, e la mattina successiva - o almeno quella che crede sia mattina - dopo essere caduto qualche ora prima in un sonno agitato, trova una tinozza di acqua bollente che lo attende al centro della stanza. Su una sedia sono appoggiate delle vesti di lino bianco, le più pregiate che Atsumu abbia mai avuto modo di indossare. Il tessuto è delicato sulla sua pelle. Appoggiato sul tavolo, Atsumu trova anche un diadema d’oro decorato con rubini. Lo prova per un momento, sulla testa è leggero ed è sicuro che se si guardasse allo specchio presente nella sua stanza gli sarebbe stato benissimo addosso, ma scelse di non indossarlo. 

Si sedette su una sedia nella sua stanza, incerto su cosa dovesse fare, fino a che non sentì bussare alla porta. 

Quando la andò ad aprire si trovò davanti Kyoomi in persona.

"Vorrei mostrarti una cosa," disse brusco e senza troppi preamboli.

Atsumu acconsentì, chiedendosi distrattamente se il re degli inferi avrebbe mai accettato un diniego, ma principalmente per curiosità. C'erano così tante storie sul regno dell'oltretomba, e Atsumu sapeva che gli stava venendo offerta un'opportunità più unica che rara. 

Kyoomi lo guidò per i corridoi del palazzo con sicurezza, e Atsumu nonostante volesse fermarsi a osservare meglio tutto ciò che si trovava intorno non osò né chiedere né fermarsi: quel luogo era un labirinto e c'era il rischio concreto che, se avesse perso Kyoomi di vista non avrebbe mai ritrovato la strada del ritorno.

Poco dopo sbucarono in una grotta, e ad Atsumu si mozzò il fiato in gola. La caverna era quasi illuminata a giorno dal bagliore delle gemme che conteneva. L'oro sulla volta alta dava l'impressione di un cielo stellato, gli smeraldi in terra ricordavano quasi un prato punteggiato da fiori di rubino e ametista.

"Tutto questo potrebbe essere tuo se accettassi la mia proposta," intervenne Kyoomi, interrompendo qualunque altro pensiero.

Atsumu sentì l'indignazione crescere nel suo stomaco. 

"Non è questo il punto," rispose fermo, al limite dello sgarbato. Alzò con un vago timore gli occhi su Kyoomi, ma quello che trovò sul suo viso era solo confusione.

Atsumu non riuscì a capire quale fosse l'obiettivo del dio nel mostrargli tutto quello. Gli venne in mente il primo avvertimento di sua madre: non fidarti delle ricchezze del sottosuolo.

Kyoomi abbassò gli occhi, quasi vergognoso. "Ero convinto— si dice sempre che la ricchezza sia un valore, tutti desiderano essere ricchi. Pensavo che lo volessi anche tu."

Atsumu rimase interdetto dalla confessione e non sapeva da dove cominciare. 

"Non è così per tutti," disse solo. "Non tutti desiderano essere ricchi"

"E tu cosa desideri?" chiese Kyoomi, con gli occhi brillanti come le gemme e la curiosità evidente nel suo viso.

"Non lo capiresti"

Kyoomi fece un passo indietro e non parlò oltre. In silenzio accompagnò Atsumu alla sua stanza e in silenzio si dileguò. Atsumu si chiese se non avesse dato la risposta sbagliata.






Atsumu aveva deciso di andare in esplorazione del cartello. Il palazzo era splendido, ma a conquistarlo fu il giardino. Atsumu aveva visto una porta, e da quella direzione aveva sentito venire il profumo più dolce che avesse mai sentito. Quando l'aveva aperta si era trovato davanti qualcosa di spettacolare.

Il giardino era una delle cose più belle che Atsumi avesse mai visto. Atsumu vagò per i sentieri, studiando le piante che non aveva mai visto, meravigliandosi davanti ai fiori colorati in tonalità che Atsumu mai aveva pensato potessero avere, così brillanti da risplendere nell’oscurità. Non aveva idea di come il giardino potesse fiorire in quel modo in assenza di luce, ma lo faceva, ed era una meraviglia.

Cerbero gli fu addosso in un attimo, gli girava intorno alle gambe felice, contento di avere qualcuno con cui condividere la passeggiata. Atsumu provò ad avvicinarsi e accarezzargli una delle teste. Dovette mettersi sulle punte dei piedi per farlo, ma Cerbero sembrò apprezzare le coccole che gli venivano riservate.

Atsumu sentì la porta del giardino aprirsi e vide Kyoomi entrare nel giardino dietro di lui, ma rimase in disparte e non disturbò la passeggiata di Atsumu. Fu Atsumu a fargli cenno di raggiungerlo e Kyoomi lo fece. Atsumu continuò la sua passeggiate nell’immenso giardino, con Kyoomi che silenziosamente gli camminava accanto. Il silenzio sembrava non disturbarlo.

“Sei tu a prendertene cura?” chiese Atsumu, voltandosi verso di lui.

Kyoomi sembrò essere preso alla sprovvista. A pensarci bene era la prima volta che Atsumu gli rivolgeva la parola per primo.

“Sì,” rispose con voce incerta. “A nessuno importa di come appare questo posto. Sono l’unico che ci vive… a parte Cerbero. Gli piace qui”

Atsumu sorrise e Kyoomi non riuscì più a staccare gli occhi dalle sue labbra. Un sorriso onesto, il primo da troppo tempo, e Atsumu lo stava rivolgendo a lui. 

“Borbotti quando sei nervoso,” disse Atsumu ridendo. Kyoomi sentì il calore risalirgli sulle guance, una sensazione che non aveva mai provato prima. Ma l'imbarazzo era nulla in confronto al potere sentire finalmente quella risata dal vivo dopo mesi passati a guardarla da lontano. Cercò di nasconderlo, ma Atsumu lo aveva visto. 

Il signore degli inferi era molto meno spaventoso di quanto avesse pensato in origine. 

Stavano ancora camminando nel giardino quando raggiunsero il centro del giardino, dove si ergeva rigoglioso un albero di melograno. Era da quello che derivava il profumo delizioso che lo aveva inizialmente attirato nel giardino. Ad Atsumu venne l’acquolina in bocca, e si ricordò del secondo avvertimento di sua madre: non mangiare nulla che derivi dal sottosuolo. 

Intorno alle chiome dell’albero, uno sciame di lucciole illuminava le foglie come stelle nel cielo. Era uno spettacolo meraviglioso. Ad Atsumu tornò in mente uno spettacolo simile a cui aveva assistito non molto tempo prima, in un altro bosco. Un sospetto cominciò ad affacciarsi alla sua mente, si voltò verso il re degli inferi e lo studio per un momento. Il re non se ne accorse, con gli occhi seguiva il volo delle lucciole, seguendo le scie di luce che creavano nel cielo scuro. Ogni volta che lo guardava Atsumu si rendeva conto di quanto fosse bello, i lineamenti del suo viso avevano un’eleganza statuaria. Era un peccato che una tale bellezza vivesse rinchiusa in un posto del genere, lontana da dove poteva essere veramente apprezzata, esattamente come il giardino di cui si prendeva cura. 

“Quella notte,” disse Atsumu in un sussurro incredulo “Quella notte sei stato tu”

“Eri triste,” rispose Kyoomi. “E io avevo un debito da saldare?”

“Un debito?”

Kyoomi non elaborò, continuando a guardare il volo delle lucciole con uno strano sguardo sul volto. Atsumu sentì un nuovo moto d’affetto attanagliare il suo cuore. Adesso poteva mettere in prospettiva tutto, anche la sua offerta di gemme e ricchezze. Non stava cercando di comprarlo, stava cercando di convincerlo che valeva la pena di restare, se non per lui almeno per quello che avrebbe guadagnato.

Nei giorni precedenti lo aveva visto senziare le sorti delle anime, ed era giusto, fermo e deciso, ma non spaventoso. Chiunque raccontasse le storie sulla superficie avrebbe avuto seriamente bisogno di correggere il tiro. 




Atsumu cominciò ad abituarsi alla sua vita in quel posto. Appena sveglio passeggiava per il giardino con Cerbero, che spesso gli faceva compagnia, come se volesse approfittare che ci fosse qualcuno con cui passare le sue giornate quando il suo padrone era sempre così occupato. 

Negli ultimi giorni Kyoomi era raramente uscito dalla Sala Grande, sempre seduto fisso alla sua scrivania. Era evidente che l’afflusso di anime era stato molto superiore a quanto fosse di solito. Atsumu si chiese preoccupato se fosse successo qualcosa sulla terra. In quei giorni ebbe anche l’occasione di vedere alcuni processi alle anime, e questi confermarono la sensazione che aveva avuto di Kyoomi. Era un re giusto, inflessibile con gli altri come lo era con sè stesso, ma assolutamente giusto.

Atsumu prese l’abitudine di fermarsi ogni giorno, dopo la sua passeggiata, nella Sala Grande. Di solito Kyoomi metteva in pausa il suo lavoro e si intratteneva un po’ con lui. Quel giorno, quando Atsumu entrò, Kyoomi era talmente concentrato sul suo lavoro da non rendersi conto del suo ingresso. 

Stando attento a non fare rumore, Atsumu salì sulla pedana fino ad essere alle sue spalle. L’espressione sul suo volto era concentrata mentre studiava i report delle anime che giungevano fino a lui. Ad Atsumu venne da chiedersi come facesse a fare quel lavoro tutto il giorno senza avere nulla in cambio, senza avere qualcosa che gli ricordasse l’esistenza anche della serenità nel mondo. Viveva circondato dalla sofferenza, senza un raggio di luce a riscardargli il volto e ricordargli che esisteva anche altro al mondo. 

Senza pensarci troppo, Atsumu si avvicinò a lui, e gli passò una mano tra i capelli. Erano lisci al tatto esattamente come Atsumu aveva immaginato. Kyoomi saltò sul posto, e alzò lo sguardo per guardare Atsumu. 

“Scusami,” disse come prima cosa. Ma Atsumu non voleva sentire scuse. Fece scivolare la mano dai suoi capelli fino ad appoggiarla sulla sua guancia. Kyoomi aveva cerchi scuri intorno agli occhi e l’espressione di chi non aveva dormito decentemente da giorni. La sua pelle era fredda al tatto, ma stava cominciando a colorarsi e scaldarsi sotto i polpastrelli di Atsumu.

“Dovresti dormire,” gli disse.

“Se lavoro quando dormi posso passare il tempo con te quando sei sveglio”

“E quando dormi tu?”

“Non ne ho bisogno”

“La tua faccia dice il contrario”

Kyoomi appoggiò meglio la testa sulla mano di Atsumu, godendosi il calore sulla sua pelle, come un raggio di sole. Depositò un bacio leggero all'interno del suo polso. Atsumu sentì il calore prendergli l’intero corpo davanti al modo in cui quegli occhi studiavano il suo viso, Era il contatto più intimo che avessero mai avuto, e Kyoomi doveva essersi reso conto della cosa. Scattò indietro, mormorando ancora una volta le sue scuse, e tornò a lavorare. Atsumu avrebbe voluto richiamarlo, risentire quel calore e quel peso contro la sua mano, ma scoprì di non conoscere le parole giuste per farlo. 




La carestia era caduta sull’umanità. La madre che non poteva accettare la perdita di suo figlio vagava per la terra, con i capelli di grano, dello stesso colore di Atsumu, scarmigliati intorno alla sua figura, urlando il nome del figlio come una baccante.

Anche il padre degli dei non poteva più ignorare quella situazione e mandò il messaggero degli dei nell’Oltretomba.

Kyoomi vide Komori presentarsi alla sua porta, con un ordine impossibile da rifiutare di consegnare Atsumu alla madre. Kyoomi non voleva lasciare andare Atsumu, ma non c’era nulla che potesse fare per opporsi al volere di suo fratello. Atsumu era un punto di luce nell’Oltretomba, ma nessuna serenità poteva durare in quel luogo, e Kyoomi avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro, invece di cullarsi in una speranza cieca e irrazionale. Atsumu era stato lì per poco tempo, e già Kyoomi non riusciva a ricordare come fosse quel posto senza di lui. 

Kyoomi si alzò e andò a cercare Atsumu. Lo trovò nel giardino, che innaffiava le piante. 

“Questa va innaffiata una sola volta a settimana,” gli disse non appena lo vide. “Le stavi dando troppa acqua.”

“Me ne ricorderò,” gli disse Kyoomi con un accenno di sorriso. Porse una mano ad Atsumu per aiutarlo ad alzarsi. 

Atsumu lo guardò per un momento, incuriosito dal suo comportamento. Aspettò che Kyoomi si decidesse a parlargli. Kyoomi, di fronte a lui, continuava a guardarlo e riusciva solo a pensare a quanto non volesse vederlo andare via. Portarlo lì era stata una scelta di impulso, ma adesso che lo conosceva meglio sentiva che lasciarlo andare via sarebbe stato come rinunciare a qualcosa che era diventato un pezzo di sè. Eppure si rendeva conto che tenerlo lì sarebbe stata una crudeltà. Atsumu era serenità, e meritava di stare dov’era il sole. 

“Tornerai sulla superficie,” gli disse Kyoomi, e proseguì poi a spiegargli cosa fosse successo sulla Terra. Gli occhi di Atsumu si fecero tristi al pensiero della sofferenza di sua madre, ma l’idea di lasciare il re degli inferi di nuovo alla sua solitudine gli spezzava il cuore. Non poteva farlo, non voleva farlo. Ad Atsumu tornarono in mente le sue parole.

“Cosa succede a chi mangia i frutti degli inferi?” chiese.

“Sarà per sempre legato a questo posto”

“E se non viene mangiato un intero frutto?”

Kyoomi lo guardò confuso. “Nessuno ci ha mai provato”

“Allora scopriamolo”

Atsumu si allontanò da lui, verso l’albero di melograno. Prese un frutto e lo spaccò a metà, il succo rosso colò sulle sue mani, il profumo era inebriante e per un momento Atsumu ebbe paura che non sarebbe riuscito a fermarsi ai pochi chicchi che si era ripromesso. Prese tre chicchi e se li portò alla bocca lentamente. Kyoomi gli era corso dietro, ma quando lo raggiunse era già troppo tardi. 

“Sei chicchi,” disse Atsumu. “Come i giorni che ho passato qui.”




Insieme raggiunsero la superficie. Il sole era tornato a splendere ed era visibile attraverso l’apertura della caverna. Gli occhi di Kyoomi facevano male, ma era determinato ad accompagnare Atsumu fino all’uscita. Quando raggiunsero lo spicchio di luce del sole che illuminava il pavimento della caverna, Atsumu si voltò verso Kyoomi e gli mise una mano sulla guancia.

“Prenditi cura di Cerbero,” gli disse.

“Sì.”

“E non dimenticarti delle piante,” Atsumu stava cercando di tenere la voce calma, ma il groppo che sentiva nella gola glielo rendeva quasi impossibile, gli angoli degli occhi gli bruciavano.

Kyoomi mise la mano sulla sua, la staccò dalla sua guancia e ne baciò il palmo, prima di lasciarlo andare.

Atsumu si voltò verso la luce e cominciò a camminare. Davanti all’ingresso della grotta, lo attendeva sua madre. Non appena fu fuori la madre lo strinse in un abbraccio soffocante, troppo commossa per proferire parola, poi lo prese per le spalle e lo staccò da sè, studiando attentamente il suo volto e il suo corpo. 

Atsumu si voltò, nella speranza di poter dare un’ultima occhiata a Kyoomi, ma quello non era più visibile, nonostante Atsumu potesse ancora percepire la sua presenza. Kyoomi, con indosso il suo elmeno dell’invisibilità, era ancora lì, al limite di dove poteva arrivare, cercando di tenere Atsumu nel suo campo visivo fino all’ultimo momento possibile.

Un urlo della madre richiamò l’attenzione di Atsumu. Il suo volto era impallidito, e lo guardava con gli occhi spalancati e pieni di terrore. 

“Hai— Hai mangiato,” disse. 

Atsumu annuì, fermo e deciso, senza dubitare neanche per un momento della sua scelta. 




Il palazzo senza Atsumu era buio e silenzioso, le ore di lavoro lunghe e interminabili quando non aveva la certezza che a un certo punto Atsumu sarebbe spuntato da quella porta e gli avrebbe sorriso.

L’accordo che avevano raggiunto con gli dei era buono, ottimo per certi aspetti, ed era quanto di meglio avrebbe mai potuto sperare Kyoomi. Per sei mesi Atsumu sarebbe rimasto sulla superficie, e gli altri sei mesi li avrebbe passati lì, nell’Oltretomba con lui. La madre di Atsumu gli aveva dichiarato guerra, dicendo che avrebbe buttato tanto freddo sugli umani da farli morire come mosche, per tenerlo troppo occupato con il lavoro che non avrebbe potuto passare neanche un momento di tregua con Atsumu. Atsumu aveva protestato, ma Kyoomi non aveva dubitato neanche per un secondo che ne valesse la pena in ogni caso. Il solo sapere che avrebbe potuto alzarsi dalla sua scrivania e lo avrebbe trovato da qualche parte nella dimora, probabilmente nel giardino, probabilmente sotto il melograno, avrebbe reso quel periodi migliore degli altri sei mesi trascorsi senza di lui. Come il primo raggio di sole dopo una notte insonne, era così che Atsumu era per lui, o almeno così credeva, i suoi ricordi del sole erano piuttosto sbiaditi.

Certi giorni Kyoomi camminava per il giardino con Cerbero accanto, si aspettava di vedere Atsumu spuntare da dietro una siepe da un momento all’altro, ma non accadeva mai. Poteva ancora sentire nelle orecchie la voce di Atsumu che gli ricordava come prendersi cura di alcune piante che sotto le sue mani erano state quasi ridotte alla morte, e sotto quelle sapienti di Atsumu erano tornate vive e rigogliose. 

Una sera che non riusciva a dormire, Kyoomi sbirciò cosa stesse facendo Atsumu. Era su un prato, circondato di persone e rideva così forte che gli angoli degli occhi erano arricciati. Kyoomi sentì lo stomaco stringersi. Atsumu non aveva mai sorriso così con lui, e avrebbe dato qualunque cosa per vederlo e sentirlo. Si chiese se quei mesi passati in superficie avessero fatto cambiare idea ad Atsumu, se si fosse pentito della sua scelta, ma ogni pensiero del genere venne spazzato via quando arrivò il giorno del suo ritorno.

Kyoomi andò ad accoglierlo all’ingresso della caverna, lo stesso dove lo aveva lasciato sei mesi prima tra le braccia della madre. 

Il modo in cui Atsumu lo guardò in quel momento non lasciava spazio a dubbi, gli confermò che anche lui aveva sentito la sua mancanza tanto quanto lui aveva sentito quella di Atsumu. Atsumu gli venne incontro, velocizzando il ritmo ad ogni passo, fino ad essere fermo davanti a lui. La sua pelle aveva acquisito nuovamente quel tono bronzeo che solo stando sotto la luce diretta del sole, e i suoi occhi brillavano più di tutte le gemme che Kyoomi possedeva nel suo regno.

Atsumu gli sorrise e gli portò una mano sulla guancia. La sua pelle era calda. 

“Stai lavorando troppo,” gli disse come prima cosa. 

Kyoomi annuì, un lieve sorriso sulle labbra “Ho disperatamente bisogno di qualcuno che mi ricordi di dormire”

E Atsumu rise, di una risata umida, con gli occhi lucidi e colmi di sollievo. “Fortunatamente sono qui”

“Fortunatamente sei qui”



chasing_medea: (Default)
Titolo: Amantium irae amoris integratio est
Fandom: Haikyuu
Missione: M5 - Amantium irae amoris integratio est: le ire degli amanti rinnovano l’amore.
Parole: 222
Rating: safe

Hinata e Kageyama bisticciano di continuo, discutono su qualunque cosa e anche le loro discussioni pacifiche sembrano litigate alle orecchie altri, per il loro essere condite di insulti vari ed eventuali. In realtà, però, sono molto rare le occasioni in cui litigano veramente. Si conoscono da quasi dieci anni e le occasioni in cui hanno veramente litigato si possono contare sul palmo di una sola mano, la peggiore era stata circa un anno prima, quando Hinata aveva scoperto che Kageyama si era andato a leggere sul suo cellulare alcune conversazioni che Hinata aveva avuto con i suoi amici del Brasile. In quel caso Hinata era andato via di casa per qualche giorno, aveva chiesto asilo a Kenma nella sua casa fuori città e per qualche giorno aveva anche spento il cellulare. Si era interrogato a lungo su quella discussione con Kageyama in quell'occasione, era stata la prima volta in cui aveva messo veramente in discussione il loro rapporto, analizzandolo in ogni sfumatura e dettaglio. Sapeva che sul frangente relazioni Kageyama era piuttosto insicuro, non si sentiva un partner degno ed era soggetto ad avere crolli di quel tipo, che portavano a stupidaggini che portavano a discussioni. Ma la domanda principale che Hinata si era fatto era stata: ne vale la pena? E Hinata non aveva alcun dubbio sulla risposta a quella domanda.
chasing_medea: (Default)
Titolo: Non omnes eadem mirantur amantque
Fandom: Haikyuu
Missione: M5 - Non omnes eadem mirantur amantque
Parole: 222
Rating: safe

"La smetti di guardare ossessivamente quel telefono?", lo rimprovera sua sorella mentre mette in tavola la cena. "Sei venuto a trovare me, non per giocare con il telefono".
Kageyama chiude la cover del telefono, quella con una confezione di latte disegnata, gemella di quella che ha regalato a Hinata prima che partisse per il Brasile, ma lo lascia accanto a sè.
Inizia a mangiare il curry che sua sorella gli ha preparato. Ha sempre adorato la cucina di sua sorella, era il sapore della cucina di casa.
"Si può sapere che cosa aspetti con tanta ansia?", continuò la sorella.
"Hinata aveva un appuntamento e non mi ha ancora fatto sapere niente", risponde con la bocca ancora mezza piena.
"Ingoia prima di parlare", gli dice sua sorella con un'espressione disgustata, poi scuote la testa. "Ancora non capisco perchè non gli hai mai chiesto di uscire invece di stare qui a roderti"
"Tu hai lasciato la pallavolo per un ragazzo"
La sorella scoppia a ridere rumorosamente. "Io non ho lasciato la pallavolo per un ragazzo, l'ho lasciata per i capelli e adesso faccio la parrucchiera! Hai veramente rinunciato a lui per paura di dover lasciare la pallavolo? Pensi che te lo permetterebbe, tra l'altro?"
Kageyama spalanca gli occhi, colto da una improvvisa realizzazione. Si alza di scatto da tavola. Ha una chiamata da fare.

Ad horas

Mar. 21st, 2020 08:07 pm
chasing_medea: (Default)
Titolo: Ad Horas
Fandom: Haikyuu
Missione: M5 - Ad Horas
Parole: 2222
Rating: safe

Insieme ad un paio di amici Kageyama percorre le strade buie, diretto ad una festa alla quale non dovrebbe andare. Il vestito elegante che ha preso in prestito gli sta leggermente stretto sulle spalle e leggermente corto sulle caviglie, facendogli risalire i brividi di freddo lungo tutto il corpo.
“Da questa parte”, gli fa cenno Kindaichi, guardando nella sua direzione da dietro la spalla. Svolta a destra, in una stradina talmente stretta che Kageyama non è sicuro di poterci passare, ma a lui e Kunimi non resta altra scelta se non seguirlo.
È stato Kindaichi a venire a sapere di quella festa e a trovare il modo di farli entrare, è stato sempre lui a trovare dove potessero affittare dei vestiti eleganti e tutto ciò che potesse servirgli per imbucarsi. Non era il loro ambiente, anzi, era quanto di più lontano dal loro ambiente potesse esistere, ma loro, cresciuti per strada, volevano vedere almeno una volta nella vita che cosa significasse appartenere ai ceti più alti, che cosa significasse fare la bella vita e mangiare tutte quelle cose prelibate che tante volte avevano aiutato a scaricare dalle navi che affollavano il porto per racimolare qualche spicciolo.
Camminano ancora un po’, Kageyama segue ciecamente Kunimi. Quella parte della città, i meandri dei quartieri alti, è totalmente sconosciuta per lui.
“Eccoci arrivati”, dice Kunimi, affacciandosi dietro un angolo.
Anche Kageyama si affaccia, vede una piccola via, in fondo vedono un cancello di ferro battuto leggermente aperto che da su un giardino, da cui provengono un brusio indistinto di rumori e la musica di un'orchestra in lontananza. Si ritira poi dietro l’angolo.
“Le maschere”, gli ricorda Kindaichi mentre indossa la sua.
Kageyama annuisce, slega la maschera dalla cinta e la indossa. Quelle è stato Kindaichi a procurarle. Lui e Kunimi indossano le loro maschere, una bianca e una rossa, coprono interamente la parte superiore del viso e hanno alcune piume che svettano sulla sinistra. Quella che ha scelto per Kageyama è la meno coprente delle tre. È composta solamente da ghirigori di ferro nero, il suo viso è quasi interamente scoperto. Kageyama aveva protestato quando l’aveva vista, per il timore di essere troppo scoperto in quel modo, che lo riconoscessero subito come non appartenente a quel mondo e non lo lasciassero entrare.
“Con quella faccia potresti entrare anche senza maschera”, gli aveva detto Kindaichi, ma Kageyama non era sicuro di che cosa volesse dire.
Ormai non c’era più tempo. O la va o la spacca, si disse.
Indossa la maschera e la lega dietro la testa, facendosi aiutare dagli altri per posizionarla nel modo giusto.
Svoltano l’angolo e si avvicinano al cancello. La guardia da una rapida occhiata ai loro abiti, Kageyama si stringe un po’ meglio nel mantello per nascondere la stoffa tirata che smascherava il vestito come non suo. La guardia si sposta di lato lasciandoli passare. Il giardino, davanti a loro, è illuminato da lampade di carta bianche sparse un po’ ovunque, che danno all’intero ambiente un atmosfera onirica, un tavolo colmo di bevande è su un lato. La musica dell’orchestra proviene dall’interno del palazzo, le cui porte erano state lasciate spalancate. Sparse ovunque per il giardino donne con larghe gonne e maschere sfarzose chiacchierano con uomini ben vestiti mentre sorseggiano vino da calici di cristallo, si coprono la mano con la bocca e si lasciano sfuggire acuti risolini civettuoli. Altrove uomini parla con tono serio tra di loro o sorseggiano vino ascoltando la musica che proviene dall’interno del palazzo.
I tre ragazzi si scambiano una rapida occhiata, poi decidono di entrare nel palazzo. Le porte sono in legno massiccio e scuro e riccamente intarsiate, ma nella penombra è praticamente impossibile capire che cosa rappresentino, a Kageyama sembra di distinguere solamente qualche fiore, ma non è troppo sicuro.
Poco oltre l’ingresso, un valletto si offre di prendere i loro mantelli e i tre glielo lasciano. Una volta dentro la musica è molto più forte, le pareti della sala sono decorate con affreschi dorati, grandi lampadari di cristallo pendono dal soffitto, sparse intorno alla stanza ci sono numerose sedie di legno lucido e con la seduta in lucida seta. Il centro della sala è interamente occupato da persone che ballano, alla musica si mescolano risate e rumore di calici che brindano e chiacchiere di sottofondo. I tre ragazzi rimangono fermi sulla porta per un momento, non sapendo come relazionarsi a quel mondo che non gli appartiene. Poi Kageyama nota in un angolo il tavolo del buffet: non ha alcuna intenzione di andarsene di lì senza aver assaggiato il cibo dei nobili. Kindaichi sembra più interessato a scoprire di che cosa parlino i nobili e Kunimi alle danze. I tre si dividono e Kageyama si dirige verso il tavolo del buffet.
Accatastati sul tavolo ci sono molte pietanze che Kageyama conosce, ma sono molte di più quelle a lui totalmente sconosciute. Viene attirato da una pietanza in particolare. Sembrano piccole tortine salate con lo strato esterno croccante.
“È un sartú di riso”, gli dice una voce alle sue spalle. “È riso con dentro varie cose. È un piatto che viene dal sud”.
Kageyama fa un cenno di ringraziamento con la testa senza neanche voltarsi, e se ne serve uno. Lo sconosciuto, però, non sembra volersi allontanare da lì, Kageyama continua a sentire la sua presenza alle sue spalle.
“Non sei di queste parti, vero?”
Kageyama si blocca sul posto, con il piatto in mano, il sartù ancora intatto e alza lo sguardo dal piatto allo sconosciuto. È più basso di lui, ha i capelli rossi, che svettano disordinati sopra la maschera di un blu intenso e che lascia scoperti dei grandi occhi caldi, ha labbra carnose e la pelle chiara della nobiltà.
“Non ho intenzione di denunciarti, tranquillo”, continua lo sconosciuto.
Kageyama sospira.
“Come lo sai?”
“Ti muovi in maniera circospetta. E poi mi ricorderei di te se ci fossimo già incrociati”, dice guardando Kageyama dall’alto al basso e viceversa. “Allora, perché imbucarsi a una festa come questa quando si vede che non sei a tuo agio?”
Kageyama mormora qualcosa in risposta, voltando la testa nella direzione opposta, ma le sue parole vengono inghiottite dall’applauso per l’orchestra che ha terminato un altro pezzo.
Lo sconosciuto si avvicina a Kageyama. “Puoi ripetere?”
“Volevo assaggiare quello che mangiano i nobili”, confessa Kageyama con le guance in fiamme.
Lo sconosciuto scoppia a ridere. “Non hai torto”. Con un gesto del braccio indica a Kageyama l’intero tavolo. “Serviti pure”.
Rimane accanto a Kageyama, spiegandogli con esattezza cosa sia ogni piatto e consigliandogli cosa deve mangiare assolutamente. Mangia insieme a lui.
“E per finire, una di queste”, gli dice lo sconosciuto prendendo due cubetti verdi ricoperto di zucchero da una ciotola, se ne porta uno alla bocca e solleva l’altro fino all’altezza da viso di Kageyama.
Kageyama si sporge in avanti e prende il cubetto verde direttamente dalle dita dell’altro, nel farlo le sue labbra gli sfiorano la pelle su cui è rimasta un po’ di granella di zucchero.
Il cubetto sa di menta, pizzica sulla lingua ma è rinfrescante, ha una consistenza morbida e si scioglie in bocca.
“Cos’è?”
Lo sconosciuto sembra riscuotersi solo in quel momento. “G-gelatina alla menta!”, sputa fuori con più enfasi del necessario.
Kageyama annuisce e si guarda intorno nella sala alla ricerca dei suoi compagni, ma in quel marasma di balli e maschere non li riesce a scorgere da nessuna parte.
“Adesso che hai assaggiato il cibo dei nobili te ne andrai?”, gli chiede lo sconosciuto.
Kageyama abbassa lo sguardo verso di lui, anche lui tiene lo sguardo in direzione delle danze. Kageyama non ha voglia di andarsene.
“Non ancora”
Lo sconosciuto si volta verso di lui con un sorriso talmente luminoso da essere accecante.
“Non puoi andartene senza aver provato i balli”, gli dice prendendogli la mano e trascinandolo sulla pista.
Kageyama cerca di trattenerlo. “Non conosco i passi!”
L’altro si volta verso di lui senza smettere di trascinarlo, gli sorride ancora. “Basta che segui me”.
Lo trascina nel centro della pista, nel punto in cui le danze sono più fitte, gli spiega come mettere le mani. L’orchestra riparte con la musica, un valzer, e lo sconosciuto comincia a muoversi, a bassa voce mormora a Kageyama i passi per aiutarlo a tenere il ritmo. Kageyama inciampa un paio di volte nei suoi piedi, ma continua a seguirlo e combatte la tentazione di guardare in basso, verso i propri piedi. Tiene stretta la mano dello sconosciuto, è piccola è morbida rispetto alla sua, grande e indurita dai lavori occasionali che riesce a trovare. L’altra mano di Kageyama si appoggia sul fianco dello sconosciuto e facendolo si rende conto di quanto sia esile la sua vita. Nella musica Kageyama fa fatica a sentire le indicazioni che l’altro gli da, è costretto a tenere lo sguardo fisso sulle sue labbra, sono carnose e leggermente arrossate e gonfie, come se avesse l’abitudine di mordersele. Kageyama le osserva mentre si muovono e gli dettano i passi che deve compiere, ma i passi vengono compiuti in automatico, Kageyama è totalmente perso nella sua osservazione. Ha voglia di avvicinarsi, di poggiare le proprie labbra su quelle dell’altro, sentire se sulle sue labbra è rimasta ancora della granella di zucchero e se la sua bocca sa ancora di menta quanto quella di Kageyama.
Lo sconosciuto alza lo sguardo, anche lui sembra rimanere bloccato sulle labbra di Kageyama. Kageyama sa che le sue labbra sono più sottili, non ci vede nessuna attrattiva particolare, ma l’altro evidentemente non è dello stesso avviso perché rimane lì ad osservarle. Kageyama si inumidisce le labbra con la lingua e avvicina il proprio viso a quello dello sconosciuto, con la mano ancora sul suo fianco Kageyama può sentire il brivido che gli attraversa il corpo. Lo sconosciuto, però, all’ultimo momento porta la propria fronte a contatto con quella di Kageyama e allontana le labbra.
“Usciamo di qui”, dice in un sussurro e, se Kageyama non gli avesse ancora fissato le labbra, non se ne sarebbe mai accorto.
Annuisce e segue lo sconosciuto fuori di lì, verso il giardino. All’ingresso recuperano i propri mantelli ed escono. La temperatura si è abbassata rispetto a quando Kageyama è arrivato e l’aria fredda sferza le guance arrossate di entrambi. Il giardino è quasi deserto ormai, tutti hanno trovato rifugio all’interno del palazzo.
Lo sconosciuto lo guida in un angolo nascosto del giardino e Kageyama lo segue in silenzio. Non appena svoltano un angolo e si ritrovano in una piccola nicchia, lo sconosciuto porta le mani intorno alla nuca di Kageyama. Kageyama fa passare un braccio sulla sua schiena e finalmente appoggia le labbra alle sue.
Come aveva immaginato sa di menta e di zucchero, il bacio è lento e delicato, è appena uno sfiorarsi di labbra all’inizio. Poi, piano piano, Kageyama si fa più intraprendente e l’altro lo accetta. Il suo corpo è caldo contro quello di Kageyama, le sue labbra bollenti e umide.
Kageyama vorrebbe approfondire ancora il contatto, ma le maschere sono di intralcio. Porta una mano a togliersela, ma l’altro appoggia la mano sul suo polso.
“No”, gli dice con un sorriso dolce. “Non smuovere le acque”
Kageyama non capisce, ma non gli interessa. Vuole solo baciarlo di nuovo e lo fa, chinandosi verso di lui, spingendolo contro il muro e stringendolo con il suo corpo.
Una campana in lontananza suona l’ora e lo sconosciuto si stacca da lui.
“Devo andare”, gli dice e gli sorride dolcemente.
Kageyama vorrebbe chiedergli se possono rivedersi, ma non ha il tempo di farlo. Lo sconosciuto gli appoggia un altro bacio delicato sulle labbra e si allontana da lì.
Kageyama gli va dietro dopo un momento, torna allo spazio principale del giardino, ma non c’è nessuno lì se non la servitù che sistema tutto e sta smontando le decorazioni. Kageyama si fionda dentro il palazzo, ma nella confusione delle danze non lo vede. Prova a cercarlo in mezzo alla pista da ballo, gettandosi tra la calca con ancora il mantello addosso, ma di lui nessuna traccia. Kageyama si arrende, si siede su una delle sedie affiancate alle pareti e aspetta. Aspetta fino a che la sala non è quasi deserta, poi si alza ed esce da lì
È il momento più buio della notte, quello che precede l’alba. Kageyama cerca di orientarsi tra i vicoli sconosciuti.
Quando si trova in una zona che riconosce, l’alba ha cominciato a rischiarare le strade.

La vita di Kageyama riprende come al solito dopo quella notte. La mattina si alza e va al porto per cercare lavoro, il pomeriggio, quando è libero, cerca qualche artigiano che lo accetti come apprendista o lo trascorre con gli amici. Cerca di sopprimere lo stimolo costante di guardarsi intorno cercando una macchia di capelli rossi.
La mattina che finalmente la vede Kageyama rimane paralizzato in mezzo alla strada. È sui gradini della chiesa che Kageyama supera tutte le mattine, vestito elegante e con una ragazza minuta, bionda e vestita di bianco al suo fianco. Sono circondati da una folla festante.
La coppia scende i gradini e passa a fianco a Kageyama, che non è riuscito a staccare gli occhi da loro neanche per un attimo.
“Ci conosciamo?”, gli chiede il ragazzo con aria di sfida alzando lo sguardo verso di lui.
Kageyama si riscuote. “No, chiedo scusa. E congratulazioni”, dice prima di ricominciare a camminare nella direzione opposta alla coppia.
chasing_medea: (Default)
Titolo: after the storm
Fandom: Haikyuu
Missione: M3 - differenza d’età + ff/safe
Parole: 2222
Rating: safe
Note: tw - personaggio con amputazione.

Kageyama si sitemò meglio sulle spalle il mantello color porpora, il colore dei soldati. Non sapeva per quanto ancora l'avrebbe potuto indossare a buon diritto. Si guardò un attimo allo specchio per assicurarsi che il suo braccio sinistro fosse interamente coperto dal mantello, poi uscì di casa, dando ordine ai suoi schiavi di preparare il rituale di purificazione per quando fosse tornato.

Era una mattinata dal cielo grigio, si respirava l'odore di pioggia nell'aria e le temperature si erano abbassate drasticamente nell'ultimo mese, da quando era finalmente tornato a casa. Nonostante fosse già passato del tempo il suo sonno era ancora leggero, in allerta per ogni possibile minaccia e ancora non si era abituato a svegliarsi la mattina nel suo letto, tra lenzuola che profumavano ancora vagamente di cenere, non dopo anni di tende luride e giacigli duri e scomodi.

Kageyama raggiunse il foro e cominciò a navigare agilmente tra la folla. Aveva ben chiaro in mente dove dovesse andare. Superò la zona del mercato e quella dei processi e arrivò alla zona più interna del mercato, quella dove a ogni giorno di calenda, si teneva l'asta degli schiavi arrivati direttamente da Delo.

Non pensava sarebbe mai arrivato il giorno in cui si sarebbe trovato a comprare uno schiavo che si occupasse di lui: aveva sempre considerato deboli gli uomini che vi facevano ricordo, come se non fossero in grado di badare a sè stessi, e invece ora eccolo lì, a non avere altra scelta se non quella. Il pensiero che quello stupidissimo braccio sinistro lo stesse costringendo ad andare contro tutti i suoi principi lo faceva andare su tutte le furie.

Quando Kageyama raggiunse il palco, l'asta era già cominciato. Gli schiavi già comprati erano accatastati alla destra del palco, dove i loro nuovi padroni potevano ispezionarli in ogni dettaglio prima di versare quanto pattuito ai trafficanti. Kageyama si mimetizzò tra la folla e osservò nei dettagli come funzionasse il tutto. Il banditore faceva fare un passo avanti ad uno degli schiavi ammucchiati sul lato sinistro del palco con le catene ai polsi, lo faceva girare su sè stesso mentre ne elencava le qualità e stabiliva il prezzo il partenza, poi cominciava l'asta vera e propria. Il banditore fece venire avanti un paio di ragazzi molto ben piazzati, avevano spalle larghe e braccia muscolose. Vennero presentati come perfetti per il lavori pesanti, ma non erano quello che Kageyama stava cercando. L'asta su di loro fu feroce e, come era prevedibile, il prezzo schizzò alle stelle in un lampo. Alla fine se li accaparrò un nobile che cercava giovani prestanti da mettere a lavorare nella sua tenuta di campagna.

Kageyama rimase a guardare l'asta fin quasi alla fine, quando ormai i più quotati erano già stati venduti. Il banditore chiamò in avanti quello che sembrava a tutti gli effetti un ragazzino, non poteva avere più di sedici anni. Aveva capelli rossi e un fisico esile e mingherlino e si vedeva che il venditore l'aveva tenuto alla fine, quando il foro era ormai meno affollato, proprio per la sicurezza che non ci avrebbe fatto molti soldi. Sembrava esattamente ciò che Kageyama stava cercando. Alzò il braccio e fece la sua offerta. Nessuno provò a ribatterla. Kageyama era appena diventato il proprietario di quel giovane.

Si diresse verso il lato del palco, dove il ragazzo era stato spedito dal banditore. L'addetto gli slegò le mani e il ragazzo cominciò a massaggiarsi i segni rossi che le catene avevano lasciato sulla sua pelle colorata dal sole. Kageyama si prese un momento per esaminarlo con calma. Sembrava leggermente sottopeso, ma per il resto sembrava essere in buona salute, così pagò la cifra concordata.

Uno dei trafficanti gli chiese se dovesse marchiare a fuoco il ragazzo, era un servizio che offrivano e non avrebbe dovuto pagare alcun sovrapprezzo per ottenerlo. Kageyama vide il ragazzo rabbrividire e stringersi nelle spalle.

"Non sarà necessario", rispose Kageyama.

Dopodichè fece cenno al ragazzo di seguirlo e cominciò a camminare per il foro, per la stessa strada da cui era venuto. Rispetto a quella mattina c'era molto meno affollamento, e Kageyama potè camminare con più tranquillità. Ogni tanto si voltava indietro, per assicurarsi che il ragazzo lo stesse veramente seguendo. Solo quando furono usciti dal foro Kageyama gli rivolse la parola.

"Come ti chiami?"

"Hinata", gli rispose quello con voce leggermente tremante.

"Io sono Kageyama", si presentò a sua volta.

Cercò qualcos'altro da dire per cercare di mettere il ragazzo a proprio agio, ma in quel momento sembrava terrorizzato anche dalla sua ombra e Kageyama non era mai stato bravo a confortare la gente, così optò per il silenzio. Hinata camminava nervosamente accanto a lui adesso, continuando a massaggiarsi i polsi. Ogni tanto sembrava che stesse per dire qualcosa, ma scegliesse ogni volta di non farlo.

"Parla", gli disse Kageyama leggermente spazientito all'ennesima volta.

"Posso farti una domanda?"

"Dimmi"

"Perchè hai scelto me? Cioè... rispetto agli altri... Cos- Cosa dovrò fare in casa?", chiese Hinata con voce tremante e evitando il suo sguardo.

Kageyama spostò il mantello per permettere a Hinata di vedere cosa ci fosse sotto il suo mantello. Il braccio sinistro di Kageyama era mozzato poco sotto la spalla.

"Oh", disse solo Hinata, prima di abbassare nuovamente lo sguardo.

"E' successo in guerra un paio di mesi fa", spiegò Kageyama. "Adesso ho qualche problema nel fare alcune azioni quotidiane, come vestirmi o mettere il mantello. Mi servirà aiuto per questo genere di cose.

Hinata annuì e Kageyama gli vide tirare un sospiro di sollievo.

"Credi sarà più facile così rispetto ad essere uno di quegli schiavi occupati nelle faccende di casa?", gli chiese Kageyama quasi con tono di sfida, alzando un sorpacciglio.

"Oh, no, no, assolutamente!", si affrettò a rispondere Hinata, agitando le mani in segno di diniego davanti a sè. "E' solo che... gli altri avevano detto che con il mio fisico sarei stato comprato solamente per-", arrossì di colpo e non riuscì a completare la frase.

"Per scopi sessuali?", concluse per lui Kageyama.

Hinata annuì senza alzare lo sguardo. Kageyama fece passare lo sguardo sul corpo di Hinata. Non era una teoria del tutto campata in aria, molti lo avrebbero trovato attraente e comprato solo per quel motivo.

"Non hanno torno di base", gli disse Kageyama, che non aveva alcuna intenzione di indorargli la pillola su come andassero le cose nel mondo. "Ma no, non sarà quello il tuo compito".

Hinata annuì e si rilassò leggermente. Camminarono in silenzio fino a raggiungere la domus, dove gli altri schiavi di Kageyama avevano già preparato tutto per la purificazione del nuovo schiavo prima che questo entrasse in casa.

Hinata venne spogliato nel cortile davanti alla casa e Kageyama gli versò sulla testa dell'acqua, poi Hinata venne scortato dagli altri schiavi nel bagno della casa, dove una vasca di acqua calda e aromatizzata alla rosa era già stata preparata. Hinata venne lavato e gli venne fornita una nuova tunica per sostituire quella ormai logora che gli avevano fornito i trafficanti. Hinata venne poi accompagnato nella sua nuova stanza: in qualità di servo personale del signore avrebbe dormito nell'anticamera delle stanze di Kageyama. Kageyama aveva dato ordine che le camere venissero preparare prima di uscire.

Kageyama lasciò che Hinata si rilassasse per quella prima sera. Diede ordine che la cena gli venisse recapitata in camera e che gli fosse fornita una tazza di latte caldo da bere prima di andare a dormire. Era incuriosito da quel ragazzino. Si chiedeva come fosse finito a fare lo schiavo, ma aveva la sensazione che quel primo giorno fosse stato già abbastanza ricco di eventi. La curiosità di Kageyama poteva aspettare.



Hinata, nei mesi che seguirono, si adattò bene il suo lavoro. Si occupava principalmente di aiutare Kageyama a vestirsi la mattina e svestirsi la sera, lo aiutava a fare il bagno, a mettere i documenti nell'ordine più funzionale per lavorare e altri compiti di quel tipo. L'unica restrizione che aveva era quella di dover passare la maggior parte del suo tempo a stretto contatto con Kageyama, pronto ad intervenire ad ogni evenienza. Dopo un iniziale periodo di nervosismo, Hinata cominciò a rilassarsi: aveva capito che Kageyama, in fondo, non era pericoloso come sembrava, cominciò anche a prendersi alcune libertà nel modo di parlargli, di rispondergli e di rivolgersi a lui in generale e Kageyama, nonostante fingesse di essere infastidito dalla cosa, lo trovava in realtà rinfrescante dopo una vita di persone che lo avevano guardato con terrore e deferenza. Kageyama aveva anche cominciato il suo incarico politico al senato in quel periodo. Non gli piaceva molto, avrebbe preferito tornare sul campo di battaglia, ma almeno così poteva continuare a fare il suo dovere per la città.

Rientrò a casa quella sera dopo una intera giornata al Senato e trovò il bagno già pronto. Hinata lo aiutò a spogliarsi e l'acqua calda lo accolse.

Nonostante all'inizio Kageyama avesse detto di non volere Hinata per per scopi sessuali, ultimamente la situazione era leggermente cambiata. Ogni volta che le dita di Hinata lo sfioravano per aiutarlo a cambiarsi sentiva una scintilla, ogni volta che lo aiutava a farsi il bagno doveva stare attento ad avere abbastanza schiuma che coprisse la parte inferiore del corpo. In qualità di padrone non avrebbe avuto problemi a ordinare a Hinata di concedersi a lui, ma ogni volta gli tornava in mente il suo volto spaventato del primo giorno, quando aveva temuto che Kageyama lo avesse comprato proprio per quello. Non voleva vedere di nuovo quell'espressione, non voleva ferirlo, ma lo desiderava e la situazione stava diventando insostenibile. Ogni giorno valutava più seriamente l'idea di tornare all'asta e prendere un nuovo schiavo prima di liberare Hinata e non doverlo più vedere, almeno sarebbe stato libero da quelle sensazioni contrastanti: il desiderio di distruggere quell'innocenza e il desiderio di mantenerla intatta e proteggerla.

"Testa sotto l'acqua", gli disse Hinata e Kageyama obbedì.

Hinata poi, seduto dietro di lui sul bordo della grande vasca di marmo nero, cominciò ad insaponargli i capelli, passando le dita tra i capelli nerissimi di Kageyama e massaggiandogli delicatamente lo scalpo. Le dita di Hinata erano ormai lontane dell'essere inesperte come erano state all'inizio, sapeva benissimo come muovesi per farlo rilassare. Kageyama reclinò indietro la testa e lasciò andare un sospiro di sollievo. Le dita di Hinata scesero a massaggiare il suo collo, poi le sue spalle, appoggiate al bordo della vasca e lasciate fuori dall'acqua.

"Brutta giornata?", gli chiese andando a lavorare piano su tutti i nodi nella muscolatura di Kageyama con attenzione, con dita agili e ormai esperte.

"Lunga", rispose Kageyama, rilassandosi a quel contatto. Chiuse gli occhi e si lasciò andare a quelle dita che avevano ormai imparato a conoscere il suo corpo.

"Dovresti entrare anche tu", gli disse improvvisamente Kageyama con voce totalmente rilassata, come se avesse bevuto troppo vino.

"Nella vasca?", gli chiese Hinata e Kageyama non aveva bisogno di voltarsi per vedere il sorriso sulle sue labbra.

"Sì, l'acqua è ancora calda"

"Me lo stai ordinando?", gli chiese ancora Hinata, ma la sua voce si era abbassata.

"Se ti dicessi di sì?"

"Non avrei altra scelta"

Sentì Hinata alzarsi in piedi alle sue spalle, sentì il fruscio della tunica leggera cadere a terra e lo spostamento d'aria da questa provocata. Kageyama dovette trattenersi per resistere alla tentazione di voltarsi. Per quante volte Hinata lo avesse visto nudo, Kageyama non aveva avuto lo stesso privilegio, ma solo gli dei sapevano quanto lo desiderasse.

Kageyama tenne la testa dritta davanti a sè anche quando sentì Hinata entrare nell'acqua accanto a lui. Senza timore era entrato alla sua sinistra, talmente vicino che la sua spalla sfiorava il braccio mozzato di Kageyama.

Hinata sparì per un secondo sotto l'acqua e riemerse con i capelli totalmente bagnati, li tirò all'indietro con le mani, scoprendo interamente il viso.

"Dovrei liberarti", disse all'improvviso Kageyama.

Hinata si bloccò per un momento. "Non faccio bene il mio lavoro?"

Kageyama scosse la testa. "Non è quello", abbassò lo sguardo e lo fissò sulle linee create sull'acqua dal movimento di Hinata.

"Vuoi mandarmi via? Ho sbagliato qualcosa?"

Kageyama scosse ancora la testa.


"E allora?"

Kageyama si voltò verso di lui, con la nocca della mano destra accarezzo il viso di Hinata. Hinata inclinò il viso verso il contatto. Aprì la mano per accogliere meglio il viso di Hinata, poi si sporse verso di lui e lo baciò.

Hinata ricambiò il bacio. Era goffo e inesperto, ma il petto di Kageyama si riempì oltre che di gioia anche di orgoglio al pensiero di essere stato lui a prendersi il primo bacio di Hinata.

Kageyama si allontanò e appoggiò la fronte a quella di Hinata, chiuse gli occhi.

"Non posso continuare ad essere il tuo padrone e fare una cosa del genere. Ti ho detto che non ti avevo preso per questo, ma non sono più in grado di mantenere la cosa", gli disse.

"Okay", gli rispose Hinata.

"Okay?"

"Okay, liberami", ripetè.

Kageyama sentì un pugno nello stomaco al pensiero di vederlo andare via, ma era la cosa giusta da fare.

"Anche se mi liberi", continuò Hinata. "Non ho alcuna intenzione di andarmene"

Kageyama alzò la testa di scatto, rischiando anche di dare una capocciata a Hinata nel processo. "Dici sul serio?"

Hinata annuì. "Non posso andare via, saresti totalmente perso senza di me"

Kageyama sorrise, appoggiò di nuovo la fronte alla sua. "Sì, totalmente perso", ripetè.
chasing_medea: (Default)
Titolo: Takane no hana
Fandom: Haikyuu
Missione: M2 - Takane no hana (giapponese): qualcosa o qualcuno di irraggiungibile, letteralmente "fiore sull'alto picco".
Parole: 888
Rating: safe


In aeroporto, Oikawa si guarda intorno, cercando sua sorella. E' appena sceso dall'aereo dopo molte ore di volo, non vede l'ora di arrivare a casa e farsi una doccia. Intorno a lui le scritte sono in giapponese, scritte in caratteri familiari che riesce a decifrare a primo impatto. Quando si è trasferito in Argentina passare a un altro alfabeto era stata una delle cose più traumatiche, ma ormai, a distanza di anni, anche lo spagnolo era totalmente familiare.
"Oi!", sente una voce familiare chiamarlo.
Oikawa gira la testa di scatto e davanti non si ritrova sua sorella, ma Iwaizumi.
"Iwa-chan!", lo saluta con un grosso sorriso, ma è finto.
Non voleva vederlo in quelle condizioni, avrebbe voluto avere almeno il tempo di darsi una rinfrescata. E' passato oltre un anno dall'ultima volta che si sono visti e Oikawa ci teneva a fare una bella impressione.
"Levati quel sorriso dalla faccia", gli dice Iwa. "Ho la macchina qui fuori, andiamo"
E Oikawa sorride. Non poteva pensare di farla proprio a lui, che lo conosceva meglio di come si conosce il fondo delle proprie tasche.
Salgono in macchina e Iwa mette in moto, Oikawa guarda fuori dal finestrino, facendo vagare lo sguardo sul paesaggio che si fa via via più familiare man mano che si avvicinano a casa. L'abitacolo è silenzioso, Iwaizumi non si è neanche degnato di mettere un po' di musica e Oikawa non è sicuro che sia il caso di farlo.
"Come è andato il viaggio?", gli chiede improvvisamente Iwa. La sua voce è roca e meccanica.
Oikawa non distoglie lo sguardo dal paesaggio. Non ha il coraggio di guardare nella sua direzione.
"Un po' di turbolenze, ma tutto nella norma", risponde.
Potrebbero dire qualunque cosa, potrebbero anche parlare del riscaldamento globale, di arte, delle guerre in medio oriente o dell'ultima serie tv uscita su Netflix, ma Oikawa sa che qualunque cosa possano dire sembreranno sempre e solo chiacchiere vuote quanto quel triste scambio di battute. Iwa sembra irragiungibile in quel momento, come se avesse una bolla intorno a lui che lo rende impossibile da raggiungere da qualunque cosa Oikawa possa fare. In realtà, Iwa è sempre stato irraggiungibile per lui, come quelle illusioni ottiche in cui più ci si avvicina più l'oggetto si allontana, come un oasi nel deserto. In fondo per lui Iwaizumi è sempre stato un po' un'oasi nel deserto, l'unica persona che era riuscito a comprendere fino in fondo la sua complessità, l'unica persona che avesse scelto di andare oltre la superficie di quello che era per andare a vedere cosa c'era sotto.
Mentre era in Argentina avevano ricominciato a parlare, sembrava che la frattura che Oikawa aveva creato tra di loro quando aveva deciso di partire avesse cominciato a risanarsi, ma adesso che sono nuovamente vicini, adesso che sono abbastanza vicini che Oikawa può sentire il suo respiro, Iwaizumi sembra lontano quanto l'Argentina.
Iwaizumi è sempre stato la sua costante. Pensava di averlo perso scegliendo di partire, poi aveva pensato di essere riuscito ad avvicinarsi nuovamente a lui, ma adesso non sa che pensare.
Arrivano davanti a casa di Oikawa e Oikawa, nel momento in cui apre la portiera, sente di cominciare a respirare di nuovo, è come l'impatto di aprire la finestra e far entrare l'aria fresca nella camera in cui si è dormito tutta la notte: non ci si rende conto di quanto l'aria sia viziata fino a che non si fa circolare.
Oikawa recupera dal portabagagli la sua valigia, fa un cenno di saluto a Iwaizumu e fa per aprire il cancello di casa, poi si volta e fa qualche passo indietro verso la macchina. Iwaizumi è ancora lì. Non guarda nella sua direzione, ma non ha ancora rimesso in moto la macchina.
"Potremmo vederci nei prossimi giorni", gli dice Oikawa. La voce gli trema e non riesce a nasconderlo. Non che davanti a Iwaizumu abbia senso farlo.
Iwaizumi porta una mano a coprirsi gli occhi. "Ne abbiamo già parlato", sospira.
"Tu nei hai parlato, non io"
Iwaizumi si volta verso di lui per la prima volta e solo in quel momento Oikawa si rende conto di quanto siano rossi i suoi occhi.
"Sappiamo entrambi come stanno le cose, sappiamo entrambi che vorremmo di più. E sappiamo entrambi che tra qualche giorno ripartirai"
"E cosa cambia?", lo sfida Oikawa, dicendogli quello che si porta dietro da anni ma che non ha espresso fino a quel momento. "Se stare così fa star male entrambi, tanto vale farlo insieme!"
Iwa abbassa lo sguardo. "Almeno in questo modo non devo chiedermi se c'è qualcuno con te. Posso dirmi che non è affar mio. Non è affar mio se c'è".
"E questo ti impedisce di chiedertelo? Ti impedisce di starci male?"
Iwa emette un risolino amaro. "No. Ma averti a sprazzi non fa per me"
Oikawa è stanco di avere quella conversazione. Sente le lacrime affollarsi ai suoi occhi, quelle che ha tentato di tenere a bada ogni volta che hanno fatto quel discorso. Si arrende a mostrare la sua debolezza, si arrende a mostrare a Iwa quanto tutto quello faccia male anche lui. Si arrende a mostrargli l'unica cosa che ancora non ha visto.
"Puoi almeno pensarci? Seriamente?", gli chiede con voce umida.
Iwa alza lo sguardo di scatto, sorpreso di vederlo in quelle condizioni. Qualcosa in lui si addolcisce.
"Lo farò".
chasing_medea: (Default)
Titolo: mornings with you
Fandom:
Missione: M2 - Dysania (inglese): ll trovare estremamente difficile l'alzarsi dal letto la mattina.
Parole: 1111
Rating: safe

In fondo, Kageyama ha tante qualità, ma non è una persona che si sveglia facilmente. Hinata lo ha imparato al loro primo ritiro estivo a Tokyo e adesso, al loro ultimo, in qualità di persone mature, tocca a lui o Yamaguchi svegliarlo. Ed è un compito che Yamaguchi delega volentieri a lui.
Hinata entra di soppiatto nella camera, Kageyama è ancora raggomitolato di fianco nel suo futon, con la mano tiene le coperte strette tirate fino al mento. Ha la bocca aperta e i capelli che sono completamente in disordine, ma, a differenza di quando è sveglio, il suo viso è completamente disteso.
E’ cambiato tanto, Kageyama, dal loro primo anno. E’ ancora secco quando parla, non sa rivolgersi con calma praticamente a nessuno – e più di una volta ha fatto piangere qualcuno del primo anno, solo per poi sentirsi mortificato e non sapere assolutamente come farsi perdonare, le sue scuse sono ancora peggio dei suoi complimenti balbettati – e anche in quel campo, deve ammettere che Kageyama si è impegnato per migliorare e diventare incoraggiante verso quelli del primo anno. Ma ancora Hinata non è abituato a vederlo senza la solita espressione corrucciata.
La prima volta che lo aveva visto sorridere davvero a Hinata si era quasi fermato il cuore e, nonostante adesso fosse un’occorrenza meno rara, Hinata non aveva ancora capito come dovesse gestirla.
"Kageyama?", lo chiamò piano.
L’altro non diede segno di averlo sentito.
"Kageyama?", provò di nuovo a chiamarlo avvicinandosi piano e alzando leggermente il tono della voce.
Kageyama grugnì, ma non andò oltre.
Hinata si avvicinò a lui e gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla.
Una volta aveva provato a svegliarlo in maniera più aggressiva, ma si era ritrovato lanciato contro la parete più lontana della stanza, con davanti un Kageyama boccheggiante per lo spavento e con gli occhi spalancati e onestamente non aveva alcuna intenzione di ripetere l’esperienza.
Kageyama sussurrò qualcosa nel sonno. Qualcosa che sembrava vagamente uno "Shou…"
Hinata saltò sul posto. Era così che Kageyama pensava a lui? Per nome? E addirittura con un soprannome? O forse era solo un sogno. Il viso di Hinata si fece completamente rosso.
Per qualche minuto interruppe qualunque tipo di tentativo, per vedere se Kageyama avrebbe detto qualcos’altro. Gli era piaciuto sentirgli dire il suo nome, quel soprannome affettuoso appena sussurrato.
Poteva immaginare almeno una dozzina di altre situazioni in cui avrebbe voluto sentirlo. Il suo viso si fece ancora più rosso e scosse la testa per cercare di allontanare quel tipo di pensieri. Non gli ci voleva proprio un’erezione subito prima di scendere a colazione.
Provò nuovamente a scuotere Kageyama.
Kageyama aprì un occhio.
"Sh- Hinata… ", borbottò con la voce impastata dal sonno.
Hinata gli sorrise dolce. "Ehi, è ora di colazione"
Kageyama annuì lentamente, chiuse nuovamente gli occhi e si rintanò meglio sotto le coperte.
"Ehi! Non puoi riaddormentarti, dobbiamo scendere a colazione, dobbiamo allenarci"
"Mh-mh", borbottò Kageyama e annuì contro il cuscino, ma non fece alcuna mossa per alzarsi da lì.
Kageyama riaprì gli occhi e fissò Hinata senza dire nulla.
Hinata inclinò la testa e lo guardò incuriosito. "Tutto bene?"
Kageyama annuì, con un sorriso appena accennato sul viso. Sembrava così indifeso di prima mattina.
"Potrei abituarmi", borbottò Kageyama.
"A cosa?"
"Svegliarmi così"
Hinata arrossì di botto. Kageyama sembrò rendersi conto di quello che si era lasciato sfuggire, divenne ancora più rosso di lui e nascose il viso nel cuscino.
Si conoscevano ormai da anni, si erano visti al loro meglio e al loro peggio, ma avevano cominciato ad uscire insieme da appena un paio di settimane. Anzi, non era neanche sicuro che quello potesse chiamarsi uscire insieme!
Facevano le stesse cose che avevano sempre fatto prima, ma avevano cominciato anche a integrare il contatto fisico in quelle occasioni.
Con il senno di poi, era stato tutto molto più graduale di quanto potesse sembrare.
Hinata aveva cominciato ad invadere sempre di più il suo spazio personale, guardare il suo telefono da sopra la sua spalla quando Kageyama gli mostrava qualche video di pallavolo; qualche pacca in più che era diventata una mano confortante sulla spalle, i cinque per le belle giocate erano diventati abbracci a fine partite e Kageyama si era ritrovato ad agognare quei contatti.
Avevano cominciato a sedersi più vicini quando uno dei due passava la notte a casa dell’altro.
Hinata aveva preso l’abitudine di sdraiarsi con la testa sulle sue gambe quando decidevano di prendersi una pausa dalla pallavolo e si guardavano un film sul divano di casa di Kageyama e Kageyama non aveva detto niente.
Trovava confortevole quel contatto e aveva anche cominciato a cercare più film da vedere in modo che Hinata avesse la scusa per stendere la testa sulle sue gambe.
Poi una sera era semplicemente successo. Kageyama aveva guardato Hinata steso sulle sue gambe, Hinata aveva voltato la testa dal televisore e aveva guardato in alto verso di lui.
"Tutto okay?", gli aveva chiesto.
E Kageyama aveva fatto la prima cosa che gli era venuta in mente. Si era piegato e aveva appena sfiorato le labbra di Hinata con le sue. Kageyama si era rifiutato di guardare la reazione di Hinata, si era coperto gli occhi con la mano, pregando silenziosamente che quello non scappasse di corsa di lì, prendesse la sua bicicletta e tornasse a casa nel pieno della notte, dovendo così spiegare a sua madre cosa fosse successo e quindi non avrebbe più passato la notte a casa di Kageyama, e Kageyama sapeva di stare andando in tilt, sentiva il suo viso sul punto di esplodere. Hinata aveva sollevato il busto Kageyama aveva temuto il peggio. Non sapeva cosa gli fosse preso, ma adesso aveva una paura terribile.
Hinata aveva appoggiato una mano sulla sua spalla e gli aveva dato un bacio veloce all’angolo delle labbra. Kageyama aveva spalancatto gli occhi per lo shock.
Era un saluto? Gli stava dando il contentino per poi scappare di lì? Avrebbe trovato un sorriso triste se si fosse voltato? Hinata gli avrebbe detto che gli dispiaceva ma non potevano più vedersi?
Ma Hinata senza dire nulla aveva la testa sulla sua spalla, gli aveva cinto la vita con un braccio e era tornato a guardare il film come se niente fosse, come se quella posizione fosse l’unica naturale per loro.
Kageyama ci aveva messo minuti interi prima di districare il braccio dalla presa di Hinata per avvolgerlo intorno alle sue spalle.
Da lì per loro non era cambiato nulla, ma era cambiato tutto.
Per quanto fossero veloci sul campo, in quel frangente si stavano prendendo il loro tempo, procedevano un passo alla volta.
Hinata sorrise al Kageyama ancora mezzo addormentato.
"Potrei abituarmi anche io".

moments

Mar. 20th, 2020 10:43 pm
chasing_medea: (Default)
Titolo: moments
Fandom: Haikyuu
Missione: M2 - Agastopia (inglese): ammirazione per una precisa parte del corpo di qualcuno.
Parole: 555
Rating: safe

In piena notte Hinata si sveglia. La brezza estiva entra dalle finestre spalancate della camera da letto, la luce dei lampioni penetra nella camera, lasciandola in penombra. Accanto a lui, Kageyama mormora qualcosa nel sonno e si rigira tra le coperte. Si stende a pancia in su, una mano sulla pancia, la testa leggermente inclinata verso destra, l'espressione rilassata del viso e la bocca leggermente aperta. Hinata rimane fermo a guardarlo, a guardare come quella poca luce che entra nella stanza getti ombre sul suo corpo, mettendo in evidenza alcuni tratti.
Kageyama è sempre stato bello agli occhi di Hinata, lo ha pensato sin dalla prima volta che l'ha visto, nonostante l'espressione terrificante che aveva in quell'occasione. Ha occhi di un blu profondo e tratti del viso affilati ed eleganti, ha una bocca sottile e spalle larghe, un fisico statuario e mani grandi e callose, ma dita lunghe e morbide perfettamente curate, estremamente delicate quando percorrono la pelle di Hinata.
La parte che Hinata ha sempre preferito di lui, però, è sempre stata il suo petto, largo e accogliente. Nei due anni che Hinata ha trascorso in Brasile una delle cose che gli è mancata di più è stata appoggiare la testa proprio lì, nell'incavo tra i due muscoli, e sentire il petto di Kageyama alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro, sentire la sua voce rimbombare lì dentro quando gli parlava e sentire il battito forte e regolare del suo cuore da atleta.
Hinata allunga le dita verso di lui, le fa passare sul petto di Kageyama. Non sa se gli ha mai detto quanto adori il fatto che abbia preso l'abitudine di dormire a torso nudo in estate, ma si ripromette di dirglielo la mattina dopo. Appoggia la mano al suo petto, e sente il ritmo del cuore di Kageyama che batte contro la sua mano. Hinata poi scende con la mano, fa passare le dita sui suoi addominali scolpiti, percorre ogni fossetta, I muscoli di Kageyama sono duri per l'allenamento, ma resi morbidi e rilassati dal sonno. Kageyama sospira al contatto. Hinata si blocca e alza lo sguardo verso il suo viso, ma Kageyama non da alcun segno di stare per svegliarsi e Hinata riprende con il movimento, riprende con quello studio del corpo di Kageyama.
Sapeva che a Kageyama piaceva vedere quanto Hinata potesse essere affascinato dal suo corpo, ma quelle volte che Hinata aveva provato a fare una cosa del genere con Kageyama sveglio era sempre finita con Kageyama che si spazientiva, lo sbatteva contro il materasso e accelerava tutto. Non che a Hinata dispiaccia il suo essere così diretto, in linea di massima, ma è contento di avere quei momenti per poter studiare Kageyama con tutta calma, con il mondo silenzioso fuori da quella stanza in penombra. Hinata in Brasile ha imparato anche che cosa voglia dire rallentare, respirare, prendersi il tempo per assaporare le cose, e vuole usare quella conoscenza per Kageyama, per imprimersi al meglio ogni dettaglio di Kageyama nell'animo. Come se potesse mai dimenticarlo, come se potesse mai lasciarlo andare via. Sembra che al mondo ci siano solo loro due e Hinata vuole godersi la sensazione. Si avvicina a Kageyama, appoggia la testa sul suo petto e inspira a fondo l'odore della sua pelle.
Le braccia di Kageyama, nel sonno, lo stringono meglio a sè.
chasing_medea: (Default)
Titolo: Non nobis solum nati sumus
Fandom: bnha
Missione: M5 - latino
Parole: 444
Rating: safe

"Non dovresti continuare a gettarti così nella mischia", lo rimprovera Kirishima mentre gli disinfetta la ferita sulla guancia.
Bakugou si limita a far schioccare la lingua sul palato. Non ha alcuna voglia di rispondere: c'era una situazione di pericolo e lui ha salvato i civili, non capisce perchè Kirishima senta il bisogno di fargli la ramanzina tutte le volte.
"Se non vuoi farlo per te, almeno fallo per il tuo soulmate. Chiunque sia si trova ogni giorno pieno di ferite senza sapere neanche che cosa abbia fatto per meritarselo. Sono anni che lo massacri! Quando finalmente lo incontrerai non vorrà avere nulla che fare con te. Quella del soulmate era un'altra battaglia persa con Kirishima.
"Non mi interessa", rispose secco Bakugou.
Bakugou aveva sempre odiato quel concetto, l'idea che non non si fosse nati solo per sè stessi ma che qualcun altro dipendesse da loro, mentre Kirishima l'aveva sempre trovata un'idea romantica e aveva sempre rimproverato Bakugou che non aveva fatto nulla per cercare il suo soulmate. Non era interessato a quelle cose, voleva solo continuare a fare in pace il suo lavoro da hero.
Kirishima sospirò e terminò la medicazione. Si alzò in piedi e gli disse di andarsene a casa per quel giorno. Il turno di Bakugou era finito da almeno un paio d'ore e non aveva la minima voglia di restare lì a compilare le scartoffie necessarie. Potevano aspettare fino all'indomani.
Bakugou annuì, recuperò le sue cose e uscì dalla sede dell'agenzia. Ancora non era riuscito ad aprire la sua di agenzia, ma c'era vicino ormai, sapeva che non doveva mancare molto.
E' mentre torna a casa che una nuova emergenza capita e Bakugou non può ignorarla. Un rapinatore entra in un locale e lui, senza pensarci due volte, gli fa appresso e lo ferma. Prima di essere immobilizzato, quello riesce a colpirlo al costato e a mozzargli il respiro. Qualcun altro, in quel locale ha la stessa reazione di dolore che ha Bakugou.
Bakugou alza lo sguardo e incontra i grandi occhi verdi di quel ragazzo, con il viso rotondo e pieno di lentiggini.
Quello gli sorride.
"Adesso ha senso", gli dice. "Sono contento che i lividi siano per una buona causa"
E Bakugou non può non sorridere. Se veramente era come diceva Kirishima, se veramente il soulmate è la persona che si incastra perfettamente, il suo non poteva non vederla come lui, non poteva non condividere il suo impegno. Ma qualcosa scatta in lui. Se può fare in modo che quel sorriso rimanga sul suo viso, se può fare in modo che lui soffra di meno, vale la pena prendersi un po' più cura di sè stesso, in fondo.

Profile

chasing_medea: (Default)
melwrites

April 2023

S M T W T F S
      1
234 5678
9101112131415
16171819202122
23242526272829
30      

Syndicate

RSS Atom

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated Jul. 6th, 2025 08:37 am
Powered by Dreamwidth Studios