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Titolo: the truth about
Fandom: Haikyuu
Missione: M2 - Grecia
Parole: 2000
Rating: safe

"Non capisco perchè lo fate", dice improvvisamente Sugawara.
E' seduto sul letto, con le ginocchia piegate e i gomiti appoggiati sopra, coperto solo da un leggero lenzuolo.
Sawamura si gira tra le lenzuola, punta il gomito sul materasso e appoggia la testa alla mano.
"Facciamo cosa"
"Non capisco perchè voi umani vi ostiniate tanto. Perchè stare male per un amore finito quando se ne può cominciare uno nuovo?". Sugawara fa vagare lo sguardo oltre la finestra, la luce del mattino penetra quasi accecante dalla finestra aperta. "Ho perso il conto delle volte in cui ho mandato un nuovo amore a qualcuno che stava soffrendo e quello lo ha totalmente ignorato"
Sawamura sorride, ma c'è qualcosa di accondiscendente nel suo viso.
"Prima o poi capirai", dice solamente, criptico e allusivo e Sugawara vorrebbe protestare, vorrebbe dirgli che lui vuole capirlo adesso, ma Sawamura si avvicina a lui e comincia a baciargli la spalla e qualunque pensiero che riguardi il mondo al di fuori di quella stanza svanisce.

Sugawara era il dio dell'amore, ma dell'amore non ci ha mai capito molto. Aveva sempre pensato che l'amore fosse una cosa semplice, che bastasse stare con qualcuno che facesse star bene e passare al successivo quando le cose smettevano di funzionare con quella persona, Era sempre stato un dio leggero e volatile e se funzionava per lui non vedeva perchè non dovesse funzionare anche per gli uomini, eppure continuava a vedere gli umani stare male, soffrire per amore e comunque rifiutare le sue offerte di nuova felicità, ostinarsi per trattenere qualcuno che non poteva più dargli quello di cui avevano bisogno.
E continuava ad essere affascinato dalla pura bellezza che gli umani erano in grado di tirare fuori da quella sofferenza, dalla loro capacità di trasformare il dolore in arte. Ricordava una poetessa, Saffo, non sa più quanti anni siano passati, che ha amato e perduto decine di giovani fanciulle, passate per la scuola per imparare ad essere le buone mogli di qualcun altro, ogni volta aveva sofferto e ogni volta aveva scritto. Opere talmente belle che toccavano il suo cuore, che gli facevano sentire nostalgia per una sofferenza che non aveva mai provato. Ma c'era dell'altro. La cosa degli umani che in assoluto lo lasciava più perplesso era la loro volontà di non arrendersi, la fede incrollabile che, se una volta era andata male, la volta dopo sarebbe andata meglio; il loro gettarsi a capofitto di nuovo, con qualcun altro, ricostruire tutto solo per vederlo crollare nuovamente. Non riusciva a capire. Non riusciva a capire quella sofferenza, non riusciva a capire cosa spingesse gli uomini ad andare avanti, perchè si ostinassero tanto nel volersi invischiare nuovamente in qualcosa che li aveva fatti soffrire tanto, la volontà di aprirsi nuovamente a qualcuno di nuovo, a dare nuovamente a qualcuno le armi per ferirli così profondamente. Erano come bambini che avevano scoperto che il fuoco bruciava, ma continuavano a metterci le mani ad ogni occasione possibile, bruciandosi ogni volta, e continuando all'infinito. Non riusciva a capire quale dovesse essere il suo ruolo in tutto quello.

Ricorda ancora la prima volta che ha visto Sawamura. Era ad un banchetto, stava bevendo vino in un angolo chiacchierando con Oikawa, il dio della lussuria, quando l'aveva visto entrare nella stanza. Il suo sguardo si era bloccato su di lui, il suo cuore aveva saltato un battito. Si era chiesto se era quello che provassero gli umani quando venivano colpiti dalla sua freccia.
Glielo avevano presentato come una nuova divinità, un uomo appena accolto nel concilio degli dei, reso dio della giustizia per la sua rettitudine. Gli avevano offerto la carica e lui aveva accettato, ma non per l'immortalità. Aveva accettato per poter aiutare gli uomini ad essere giusti, perchè avessero una guida nel tentativo di essere la versione migliore di loro stessi.
Da lì c'era voluto poco tempo prima che scivolassero in quella sorta di frequentazione o amicizia con benefici, come la chiamava Oikawa. Sugawara, un giorno, gli aveva anche chiesto se quello che stessero facendo fosse accettabile per un dio della giustiza.
Sawamura aveva riso, gli aveva detto che essere un uomo retto non voleva dire privarsi dei piaceri, ma solo fare in modo che il proprio piacere non nuocesse a nessuno e, dal momento che nessuno dei due era impegnato, non stavano facendo del male a nessuno con quella storia.
Sugawara aveva dovuto ammettere che aveva senso come ragionamento. Non ne avevano più parlato. Erano passati mesi e la loro situazione non si era mai evoluta oltre quello. A Sugawara andava bene così. Non importava che più tempo passasse con lui più avesse voglia di passarcene, e non era importante che spesso, dopo aver soddisfatto i loro bisogni, rimanessero semplicemente sdraiati lì, abbastanza vicini da sentire la pelle delle loro spalle sfiorarsi, a parlare di tutto e di niente. Non era importante, non era così che funzionava per lui.

"Potremmo uscire", gli dice un giorno Sawamura.
Sugawara, sdraiato comodamente tra le lenzuola apre gli occhi e volta leggermente la testa verso di lui. Alza un sopracciglio.
"Uscire?"
"Sì, non so bene cosa facciano le divinità in questi casi, ma sì"
"Tipo un appuntamento?"
"Tipo un appuntamento", gli conferma Sawamura con un sorriso luminoso.
Sugawara scoppia a ridere. L'espressione di Sawamura si gela sul suo viso, il sorriso scema lentamente.
"Noi non funzioniamo così", dice Sugawara.
Sawamura sorride di nuovo, ma è un sorriso amaro. Evita il suo sguardo.
"Hai ragione, scusa", dice.
Si alza e comincia a rivestirsi.
"Non devi andare via", prova a fermarlo Sugawara.
"Io- Mi sono ricordato che ho delle cose da fare"
Sugawara vorrebbe provare a trattenerlo, ma non sa cosa fare nè cosa dire. Non è neanche sicuro di sapere che cosa abbia sbagliato. Sugawara finisce di recuperare le sue cose sparse per la stanza nell'impeto della passione della sera precedente ed esce senza dire nulla, non lo saluta neanche.
Sugawara rimane lì, ancora nudo e coperto appena dal tessuto leggero delle lenzuola.
Sente improvvisamente freddo. Si avvolge meglio nel lenzuolo per cercare si scacciarlo via.

Le volte dopo che Sugawara prova a entrare in contatto con lui, Sawamura è sempre impegnato. La maggior parte delle volte sono scuse e Sugawara lo sa, ma non sa come confrontarlo al riguardo.
Un giorno, finalmente, è Sawamura ad andare da lui. Sugawara può vedere la tensione annidiata nell'intero suo corpo. Lo fa entrare, gli offre un bicchiere di vino.. Sawamura accetta e solo dopo averlo bevuto fino all'ultimo sorso parla.
"Non dovremo vederci più", dice.
Tiene lo sguardo basso e passa le dita nervosamente sulle incisioni sui bordi del calice di bronzo. Sugawara sente qualcosa rompersi dentro di lui, ma non è sicuro di essere in grado di identificare cosa.
"Cosa è cambiato?", chiede.
Sawamura agita nervosamente una gamba mentre cerca di cominciare a parlare un paio di volte, ma si interrompe e ricomincia. Alza finalmente lo sguardo su Sugawara, ha un sorriso sulle labbra ma i suoi occhi sono tristi.
"E' come dici tu", dice. "Quando una persona non ci rende più felici, la cosa migliore è cercare qualcun altro invece di restare lì a soffrire. Non so bene se funzioni come cosa, ma ho deciso di dare una possibilità alla tua teoria. Andare avanti, passare al prossimo"
Sugawara sente allargarsi la crepa che si è aperta in lui.
"Certo. Fai bene", dice alla fine, più per cercare di non far crollare la facciata che per convinzione.
Sawamura si alza dalla sedia, lo ringrazia per il vino e si avvia verso la porta.
"Cosa è andato storto?", gli chiede Sugawara.
"Nulla è andato storto, è solo che io volevo di più di quello che avevamo". Il sorriso triste ricompare sul suo viso e Sugawara vorrebbe farlo sparire, vuole rivedere il viso sorridente di Daichi quando passavano il tempo insieme a rotolarsi tra lenzuola sfatte e attorcigliate.
"Tu sei sempre stato chiaro", dice ancora. "Sono io che ho cominciato a desiderare di avere anche quello che non puoi dare. Ma dovevo fare la cosa giusta e venire a dirtelo di persona".
Daichi esce di casa.

Sawamura capisce in quei giorni. Capisce cosa voglia dire avere il cuore spezzato, capisce perchè gli umani soffrano, capisce perchè continuino ad aggrapparsi ad una sola persona, nonostante faccia male. E, soprattutto, capisce quanto la sua idea fosse sbagliata: gli uomini non si rifiutano di vedere le nuove occasioni di felicitò che si presentano loro, non rifiutano di vedere le nuove persone che potrebbero entrare a far parte della loro vita e renderli felici. Non li vedono proprio. Non li vedono perchè continuano a cercare quella felicitò, quella persona, quella sensazione. Quell'amore.
Non l'amore di un altro qualsiasi.
E soprattuo Sugawara capisce in quei giorni che gli amori non sono tutti uguali, che uno non vale l'altro. E lo capisce nel momento in cui, nella sua vita, sente che manca un pezzo e sa che quel pezzo ha la forma di Sawamura.
Il colpo di grazia arriva nel momento in cui scopre che Sawamura sta veramente seguendo il suo metodo. Ha cominciato ad uscire con una divinitò minore, Michimiya. Sugawara non sa bene che divinità sia, l'ha vista qualche volta di sfuggita. Ha le sembianze di una fanciulla alta e slanciata, con grandi occhi castani e un sorriso gentile. Li vede una volta camminare insieme, ridono mentre passeggiano e Sugawara sa che lì dovrebbe esserci lui, che dovrebbe essere lui a stare lì, a ridere con Sawamura.
Era questo quindi quello che voleva Sawamura. La possibilità di uscire insieme. di ridere insieme, di fare cose che non fossero solo sesso.
Non sa bene perchè lo stia facendo, ma Sugawara si avvia verso casa di Sawamura, si siede sul gradino davanti la porta, si stringe le ginocchia al petto e aspetta. Comincia a sentire freddo, le gambe sono intorpidite per essere rimaste nella stessa posizione troppo a lungo, ma rimane lì in silenzio, stretto su sè stesso, cercando di trattenere le lacrime.
Gli sembra di aver letto qualcosa del genere in molte di quelle poesie: l'amante che rimane fuori dalla porta di casa in attesa di un segno di qualunque tipo. Sugawara non sa se Sawamura sia in casa, non ha avuto il coraggio di bussare, non sa se sia ancora in giro con Michimiya, non sa neanche se tornerà a casa quella notte e il suo stomaco si annoda all'idea che possa decidere di passare la nottate con Michimiya.
Deve essersi addormentato, perchè si risveglia con qualcuno che gli tocca la spalla e chiama gentile il suo nome.
Quando apre gli occhi la prima cosa che vede è il viso di Sawamura.
"Che ci fai qui?", gli chiede preoccupato.
Sugawara afferra i suoi abiti e nasconde la testa sul suo petto, inspira a fondo il suo odore e le lacrime cominciano a scendere copiose, quasi fino a soffocarlo.
"Ho sbagliato tutto", ammette. "Tutto. Non funziona. Sostituire qualcuno in quel modo, passare da una persona all'altra non funziona. Non sono te. Voglio te"
Sawamura gli appoggia le man sulle spalle.
"Lo so che non funziona", dice.
Sugawara alza lo sguardo, ha gli occhi che gli bruciano per le lacrime e sicuramente non deve essere uno bello spettacolo, ma Daichi gli sorride e il calore raggiunge i suoi occhi.
Sugawara si sporge verso di lui per baciarlo, ma Sawamura si allontana. Qualcosa si rompe nuovamente in Sugawara.
Sawamura appoggia la fronte alla sua.
"Vorrei farlo, davvero. Mi è mancato da morire, ma al momento sono ufficialmente impegnato con un'altra persona e non sarebbe giusto", gli dice.
Sugawara non sa se ridere o piangere, ma non si sarebbe potuto aspettare nulla di diverso dal dio della giustizia. Sawamura si alza e gli porge la mano per aiutarti ad alzarsi.
"Resta con me, stanotte", gli chiede, non lasciando andare la sua mano.
"Ma hai appena detto-"
"E infatti non faremo niente, solo.... Resta a dormire con me"
Sugawara sorride. Annuisce.
Sdraiato nel letto, con il calore di Sawamura intorno a lui Sugawara sente nuovamente tutto al posto giusto. Il freddo è lontano.
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Titolo: not in the dark, but far from the light
Fandom: Haikyuu
Prompt/missione: M2 - Grecia
Parole: 4000
Rating: safe

Hinata camminava lentamente, il rumore della suola in legno dei suoi sandali contro il pavimento di pietra rimbombava sulle le pareti del tempio, l’aria fresca che si incanalava tra le colonne andava ad sfiorargli le cosce, lasciate quasi interamente scoperte dalla bianca tunica corta, simbolo di tutti gli orfani cresciuti al tempio.
Gli anziani non gli avevano spiegato nel dettaglio che cosa avrebbe dovuto fare nel corso della cerimonia, gli avevano solo detto che avrebbe avuto un ruolo essenziale. Hinata era emozionato all’idea, contento di poter far qualcosa di utile per coloro che lo avevano accolto e cresciuto, non facendogli mai mancare nulla.
Quando il giorno era arrivato, gli avevano messo in mano un cestino pieno di frutta estiva, coperto gli occhi con una benda e gli avevano detto di cominciare a camminare in linea retta fino a raggiungere l’altare al centro del tempio.
Hinata a malapena riusciva a trattenere un sorriso che sapeva non sarebbe stato appropriato alla situazione. Ci teneva a fare bene. Camminava lentamente, attento a non inciampare. Era sempre stato goffo, sempre troppo di corsa per guardare dove stesse andando, e finiva sempre per riempirsi di lividi nei posti più improbabili.
Ma inciampare quel giorno non era un’opzione.
Qualcuno appoggiò una mano sulla sua spalla, e lo guidò in avanti di qualche altro passo e lo fece inginocchiare a terra, la pietra era liscia e fredda contro la pelle delle sue gambe. Hinata allungo le mani in avanti, dove immaginava fosse l’altare, per appoggiare il cestino, esattamente come gli era stato detto di fare. Pregava con tutto sé stesso di non fare errori in quel momento, fu sollevato quando sentì che il cestino aveva toccato una superficie e il suo peso era stato scaricato via dalle sue braccia.
Gli anziani cominciarono a cantare, dei canti che Hinata non riconosceva nonostante vivesse al tempio da quasi tutta la vita, ma non ne fu sorpreso. Quella cerimonia si teneva solo una volta ogni sette anni e la volta precedente Hinata era stato troppo piccolo per assistervi. Aveva provato a sbirciare, nascondendosi con alcuni suoi compagni dietro una colonna, ma gli anziani li avevano trovati subito e li avevano cacciato via in malo modo.
“Oh, Signore della Guerra, distruttore di uomini”, tuonò improvvisamente il capo degli anziani.
Hinata saltò sul posto per lo spavento. Non era la voce dolce che si era abituato a sentire, quella che li rimproverava quando correvano tra i giardini del tempio dicendogli di fare attenzione e guardandoli sempre con un sorriso benevolo. “Ti offriamo questo sacrificio, perchè tu tenga lontana da noi la guerra per altri sette anni. Concedici di continuare a vivere in pace”.
HInata si gelò sul posto.
Sacrificio.
Lo avevano scelto come sacrificio.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime dietro la benda.
Cominciò ad agitarsi. Provò ad alzarsi, ma delle mani sulle sue spalle lo mantennero al suo posto, provò ad agitare le braccia, ma gli vennero bloccate dietro la schiena. Una nuova mano si appoggiò sulla sua testa, costringendolo ad appoggiarla contro l’altare freddo.
Hinta cercò ancora di liberarsi, continuando a dimenarsi come un forsennato. Sentiva la pelle delle ginocchia e della fronte cominciare a bruciare per lo strusciamento contro il marmo liscio.
“Che il sangue di questo giovane plachi la tua furia, permettendoci di continuare nel nostro operato liberi dalla paura”, disse ancora il capo degli anziani, la sua voce era fredda e cupa, il tono solenne la faceva rimbombare profonda contro le pareti del tempio.
Hinata, a quelle parole, perse la forza di combattere. Era quello lo scopo? Lasciare che il tempio potesse continuare ad accogliere giovani soli e dispersi, senza più nessuno al mondo, come lo era stato lui? Se quello era il prezzo da pagare per mantenere al sicuro i suoi compagni, i ragazzi cresciuti al tempio insieme a lui, per impedire che altri morissero di freddo o fame senza un tetto sulla testa, l’avrebbe pagato volentieri.
La tensione lasciò il suo corpo, allungò il collo sull’altare per porgere meglio la nuca alla lama. Era terrorizzato. Non poteva credere che quella fosse la fine, che non avrebbe più rivisto il sole, che non avrebbe più potuto correre con gli altri in giardino. Ma lo stava facendo per loro, per la pace, per gli anziani che lo avevano cresciuto, perchè tutto continuasse come era sempre stato. La benda era ormai zuppa delle sue lacrime, cercò di trattenerle, poi si disse che non importava poi molto. Non avrebbe fatto alcuna differenza. A contatto con il marmo Hinata sentì il freddo penetrare nelle sue ossa, nella sua pelle, intrappolarlo interamente.
Sentì del movimento alle sue spalle, poi solo la sensazione di essere avvolto da aria calda, che soffiava leggera sulla sua pelle, sollevando la tunica e scompigliandogli i già caotici capelli arancioni.
Cadde in avanti e fu sorpreso di sentire, sotto le dita, la sensazione dell’erba ancora umida per la rugiada mattutina e il sole che riscaldava la pelle. Cercò di respirare e il suo naso venne riempito dall’odore di fiori, le sue orecchie dal cinguettio degli uccelli e dal ronzare delle api.
Portò di scatto le mani al viso e si scoprì gli occhi. Rimase abbagliato dalla luce e fu costretto a chiudere gli occhi e coprirli nuovamente con le mani, fino a che non si furono parzialmente abituati.
Davanti a lui trovò il giardino più bello che avesse mai visto, l’erba era verde e gli alberi pieni di frutti, farfalle volavano sul prato pieno di fiori. Hinata scattò in piedi, si mosse incerto, per saggiare le capacità del suo corpo, e respirò ancora.
Vivo.
Era vivo.
Continuò a guardarsi intorno, facendo scattare la testa da una parte all’altra, incerto su dove soffermare lo sguardo.
“Ne hai ancora per molto?”, chiese una voce alle sue spalle.
Hinata si voltò rapidamente e vide davanti a sé un uomo, era alto, aveva spalle larghe e la schiena dritta. Indossava un’armatura integrale di bronzo che risplendeva alla luce del sole, teneva in mano una lunga lancia appoggiata a terra. Aveva i tratti del viso decisi e fieri, con la mascella prominente, la bocca sottile e occhi allungati e aguzzi, i capelli neri come la notte mandavano riflessi blu alla luce del sole.
Hinata aveva visto quegli abiti in fin troppe rappresentazioni per non riconoscerla, non poteva esserci dubbi. Davanti a lui si trovava il dio della guerra in persona.
“Tu… Tu sei…”, cominciò titubante Hinata.
Come ci si rivolgeva a una divinità? Doveva inchinarsi? Fargli un’offerta?
“Puoi chiamarmi Kageyama”, lo interruppe l’uomo.
“Tu mi hai salvato”
Kageyama si spostò di lato, aprendo il campo visivo a Hinata. Vide la grande casa alle sue spalle, con pareti finemente decorate, e il resto del giardino, occupato da altri giovani più o meno della sua età, qualcuno chiacchierava all’ombra di un albero, qualcuno intrecciava collane di fiori, qualcun altro leggeva, ma tutti sembravano godersi il caldo sole di quella giornata estiva.
“Vi salvo sempre tutti”, disse Kageyama.
Hinata rimase bloccato in mezzo al giardino. Il dio della guerra, assetato di sangue, che salvava i sacrifici a lui dedicati. Era diverso da quello che gli avevano sempre raccontato.
Kageyama cominciò a camminare, ma si voltò verso di lui dopo qualche passo.
“Non vieni?”
Hinata si affrettò a seguirlo.

La vita in quel posto non era male, ma Hinata non era abituato a non aver nulla da fare. Al tempio c’era sempre qualcosa di cui dovesse occuparsi, dal consegnare qualcosa in giro per la città ad andare a raccogliere la legna mantenere il fuoco acceso in città, andare a prendere l’acqua al pozzo o controllare i più piccoli, poi c’erano le lezioni per imparare a leggere e scrivere. Venivano cresciuti per diventare sacerdoti del tempio una volta diventati grandi. Lì invece Hinata non aveva nulla da fare, qualcuno si prendeva cura di tutte le loro necessità, ogni mattina trovava dei vestiti puliti ad attenderlo - erano quasi sempre tuniche molto simili a quelle che indossava al tempio, ma di tessuto più pregiato, morbido e delicato sulla pelle. All’ora dei pasti il cibo compariva miracolosamente sui tavoli. Gli altri ragazzi gli avevano spiegato che erano degli spiriti dell’aria ad occuparsene, ma Hinata non li aveva ancora mai visti. Gli avevano anche spiegato che erano stati quegli stessi spiriti a trasportarli lì. Hinata aveva una stanza tutta per sé. Non ne aveva mai avuta una, l’aveva sempre divisa con gli altri ragazzi del tempio. Era rilassante dormire da solo, svegliarsi con una ciotola d’acqua calda è un fuoco scoppiettante nel camino. La camera era grande e lussuosa aveva un grande letto con lenzuola morbide e un tavolo sempre pieno di frutta fresca. Gli altri ragazzi anche non erano male, Hinata stava imparando a conoscerli, soprattutto adesso che erano rimasti soli. Dopo alcuni giorni dall’arrivo di Hinata, infatti, Kageyama era partito per non si sapeva bene dove.
Aveva considerato l’atmosfera di quel posto abbastanza rilassata, ma si era reso conto della tensione di fondo che aleggiava tra i ragazzi solamente quando Kageyama era partito. Era come se tutti avessero tirato un respiro di sollievo, e quello che prima era stato brusio di sottofondo era diventato risate e serenità, il volume di tutto si era alzato, la casa sembrava più viva ed abitata.
Quando Kageyama era in casa, aveva notato, era tutto più silenzioso. I ragazzi non avevano paura di lui nel senso proprio del termine, ma non erano neanche pienamente rilassati in sua presenza.
Occasionalmente altre divinità andavano in visita. Hinata aveva avuto occasione di conoscere il dio della giustizia e il dio dell’amore, aveva scoperto anche che erano sposati. Il dio dell’amore si era divertito a predire il futuro di tutti loro, ma con Hinata era rimasto sul vago, limitandosi a guardarlo con una scintilla maliziosa negli occhi. Hinata non aveva capito, ma il dio dell’amore gli aveva fatto una bella impressione. Era tornato a trovarli spesso nel corso dell’assenza di Kageyama.
Hinata, quel giorno, era steso sotto un albero a godersi i raggi del sole sul viso, quando sentì i rumori del giardino scemare a poco a poco fino a che non caló il silenzio totale. Hinata aprì gli occhi e si mise seduto con la schiena contro il tronco dell’albero. Davanti a lui vide la biga di Kageyama. Doveva essere appena atterrato, i capelli solitamente in perfetto ordine avevano qualche ciocca disordinata per via del vento. Tutti tenevano lo sguardo fisso su di lui. Kageyama si guardò intorno con l’espressione corrucciata, come a controllare che fosse tutto in ordine. Passò lo sguardo sul viso di tutti i ragazzi, sembrò saltare sul posto quando vide Hinata sorridergli e distolse subito lo sguardo. Guardandosi intorno Hinata si rese conto che era stato l’unico a farlo.
Kageyama scese dalla biga e senza dire una parola si infilò dentro casa. Il giardino sembro liberarsi dalla sua paralisi, ma il rumore rimasero più contenuti di quanto fossero stati fino a poco prima.
Quando fu l’ora di cena ancora non si aveva alcun segno di Kageyama. Di solito passava poco tempo con loro, preferendo passare il suo tempo nel cortile interno della casa piuttosto che nel giardino fuori, ma almeno durante i pasti si faceva vedere. Si sedeva al tavolo e mangiava rapidamente, si alzava non appena aveva finito e lasciava che loro finissero in pace, ma almeno si faceva vedere.
Hinata, senza pensarci troppo, riempí un piatto con del cibo e si avviò per i corridoi della casa. Da quel poco che sapeva, la camera di Kageyama era al secondo piano, dove nessuno di loro osava mai andare. Anche Hinata non ci aveva mai messo piede. Salì le scale e si avventurò per i corridoi, sorpreso di vedere come il secondo piano fosse decorato in maniera molto più spartana di quanto non fosse il piano terra, dove stavano i ragazzi.
Le porte delle camere erano tutte chiuse, tranne una, leggermente socchiusa da cui flirtava un po’ di luce. Hinata sbirciò all’interno. Kageyama era disteso sul letto, con un braccio a coprire gli occhi. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo regolare, sembrava che stesse dormendo. Hinata non voleva disturbarlo, ma era arrivato fino a lì ormai. Aprì piano la porta e si infilò all’interno.
La camera di Kageyama era molto più semplice della sua, non aveva quasi nessuna decorazione sulle pareti spoglie, le tende erano di un bianco semplice, senza decorazioni dorate cucite nel tessuto.
Hinata, in punta di piedi si avvicinò al tavolo e appoggiò il piatto sul tavolo.
“Che stai facendo?”
Hinata saltò sul posto e lasciò quasi cadere il piatto. Si voltò. Kageyama non si era mosso dalla sua posizione, aveva ancora un braccio a coprirgli gli occhi. Hinata si chiese se avesse fatto abbastanza rumore da svegliarlo, e pensare che aveva provato a stare attento anche a non far scricchiolare il legno del pavimento.
“Non volevo disturbare”, cominciò a balbettare.
“Non ho detto che l’hai fatto”
“Oh”
Kageyama si scoprì il viso e si mise seduto sul letto, aprì gli occhi e vide il piatto in mano a Hinata.
Hinata glielo porse.
“Non sei sceso a cena”, gli disse.
Kageyama lo ringraziò con un cenno del capo e cominciò a mangiare.
Hinata gli riempí un bicchiere di vino dalla brocca sul tavolo e glielo porse. Kageyama bevve. Hinata rimase fermo lì per qualche secondo, poi fece per andarsene.
Kageyama aveva il viso stanco, profonde occhiaie intorno agli occhi e teneva le spalle curve, non sembrava essere nelle migliori condizioni. Avrebbe voluto chiedergli quale fosse il problema, ma non sentiva di essere nella posizione di farlo. Gli venne anche in mente che rimanere lì a guardare un dio nelle sue stanze private mente mangiava la propria cena poteva essere considerato un’offesa. Si riscosse, fece un piccolo inchino a Kageyama e si diresse verso la porta.
“Resta”, gli chiese Kageyama. La sua voce era piccola, fragile. Diversa dal tono fiero con cui l’aveva sempre sentito parlare.
Hinata appoggiò una mano allo stipite della porta e si voltò verso di lui. Kageyama teneva lo sguardo basso, il pugno stretto sopra le lenzuola mentre l’altra mano teneva ancora il piatto mezzo pieno.
Hinata annuì e tornó indietro. Si sedette sulla sedia di legno di fronte a lui.
Nessuno dei due disse altro.

Divenne un'occorrenza piuttosto comune. Ogni giorno, dopo il pranzo, quando tutti si sdraiavano in giardino per riposare un po', Hinata raggiungeva Kageyama o nelle sue stanze o nel cortile interno.
Frequentandolo di più, Hinata si rese conto che era molto meno terrificante di quanto sembrasse. Era incapace a comunicare, non voleva essere spaventoso come risultava, ma adesso HInata lo aveva capito e aveva smesso di lasciarsi bloccare dalla sua apparenza.
"Dovresti venire più spesso in giardino, parlare anche con gli altri", gli disse un giorno HInata.
"Hanno paura di me"
"Hanno paura di te perchè ogni volta che compari hai sempre quell'espressione cupa e terrificante. Dovresti sorridere di più"
Kageyama alzò un sopracciglio nella sua direzione.
"Se sapessi come fare lo farei"
"Allora fai una prova. Andiamo, sorridi!", gli disse ancora Hinata con il suo sorriso luminoso.
Kageyama sospirò rassegnato e ci provò.
Quello che venne fuori fu un ghigno inquietante. Hinata scattò indietro di qualche passo.
"Okay", disse titubante. "Possiamo lavorarci".
"Non oggi", rispose Kageyama, mettendo il broncio.
Se Hinata aveva imparato qualcosa su Kageyama in quei giorni era che detestava non essere in grado di fare qualcosa, qualunque cosa essa fosse. Era competitivo e testardo. Ridacchiò. Quando faceva così sembrava tutto tranne che il terrificante dio della guerra che gli avevano insegnato a temere al tempio.
Erano seduti sull'erba del cortile interno, Hinata aveva le gambe distese davanti a sé e la schiena appoggiata al pozzo in pietra.
"Va bene", concesse. "Riproviamo domani", disse reclinando indietro la testa e chiudendo gli occhi, lasciando che il sole gli riscaldasse il viso.
Vennero raggiunti da un messaggero. Kageyama si alzò e lo condusse nella sala principale, lasciando indietro Hinata.
Circa un’ora dopo Hinata vide il messaggero lasciare la casa. Hinata si addentrò in casa, percorse i corridoi fino a raggiungere la stanza principale. La porta era aperta. Kageyama era in piedi, appoggiato al tavolo, con la schiena curva e la testa abbassata. Bussò alla porta per rendere nota la sua presenza.
Kageyama alzò la testa.
“Tutto okay?”, gli chiese Hinata.
Kageyama raddrizzò le spalle e annuì. “Devo prepararmi a partire”
“Oh”, Hinata abbassò lo sguardo.
Si era quasi dimenticato che la persona che stava imparando a conoscere era il temibile dio della guerra, che sarebbe partito per andare a portare morte e distruzione ovunque.
“Non devi andare per forza”, gli disse Hinata.
“Invece sì”
“Perchè? Perchè non puoi restare qui e lasciare che la gente viva in pace?”, alzò la voce Hinata.
“Perchè non dipende da me!”, tuonò Kageyama.
Hinata fu per un secondo spaventato da lui, ricordandosi in quel momento la vera potenza di chi avesse davanti, ma non aveva intenzione di arrendersi.
“Come puoi dire che non dipende da te? Sei tu il dio della guerra. La gente muore in guerra! I miei genitori erano innocenti e sono stati uccisi dagli invasori, non avevano fatto nulla di male! E quanti altri come loro?”
“Quella non è la guerra. La guerra è solo quella sul campo di battaglia. Quello è un massacro inutile”
“Basterebbe non scatenare guerre e non accadrebbe neanche quello!”
“Non sono io a scatenare guerre e non posso impedire agli uomini di dichiararsi guerra! Non posso impedire agli altri dei di scatenare guerre per il loro tornaconto”, continuò Kageyama. “Credi che mi piaccia? E’ da quando sono nato che non vedo altro che morte e distruzione, ovunque mi chiamano vedo solo quello. La gente è convinta che per farmi contento debbano sacrificare vivi degli adolescenti, cazzo!”
Hinata era paralizzato sul posto, gli occhi di Kageyama erano ridotti a fessure e il suo intero corpo emetteva un’aura minacciosa.
“Kageyama, io…”, Hinata provò di nuovo ad avvicinarsi a lui, ma Kageyama si allontanò.
“Devo andare”, gli disse freddo. Recuperò il suo elmo e si diresse verso la sua biga.
Hinata lo seguì fino alla biga, avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole giuste, riuscì solo a guardarlo andare via con gli occhi spalancati, una fastidiosa sensazione allo stomaco e gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime.

Passarono i giorni e le stagioni e Kageyama non tornava. Ogni giorno Hinata guardava in ogni angolo del giardino, alla ricerca di un qualunque segno del ritorno di Kageyama, ma non riusciva a vederne alcuno. La fastidiosa sensazione allo stomaco non lo lasciava mai, mangiava il minimo indispensabile e dormiva a malapena. Detestava il modo in cui si erano salutati, detestava di aver lasciato partire Kageyama in quel modo, senza riuscire a dirgli nulla.
Era piena notte, più di sei mesi dopo, quando sentì i cavalli della biga nitrire.
Si alzò di scatto dal letto e si affacciò alla finestra. Alla luce della luna vide la biga atterrare, Kageyama scendere dalla biga e cominciare a muoversi su passo tremante verso la casa.
Subito Hinata uscì dalla sua stanza e corse verso quella di Kageyama. Un bacino d’acqua calda era stato sistemato accanto al letto e candele erano state accese in tutta la stanza. Kageyama non era ancora arrivato e Hinata cominciò a camminare avanti e indietro nervosamente.
Non era sicuro che dovesse essere lì, non era sicuro che Kageyama lo volesse lì.
Ogni pensiero svanì quando vide entrare Kageyama. Hinata spalancò gli occhi per la sorpresa quando se lo vide davanti.
Sembrava distrutto, aveva il viso di chi non dormiva da mesi, appariva ancora più spettrale alla luce delle candele, l’armatura era ricoperta di sangue, alcuni schizzi avevano raggiunto il suo viso ed era ricoperto di sangue e sudore.
Quando vide Hinata spalancò gli occhi poi abbassò di nuovo lo sguardo, nascondendosi il viso dietro la frangia che si era allungata in quei sei mesi, il resto dei suoi capelli era tirato indietro in una crocchia disordinata.
“Non ho voglia di discutere”, gli disse solo.
Hinata non disse nulla, si avvicinò a Kageyama e in silenzio lo aiutò a togliersi l’armatura, smontando con attenzione ogni singolo pezzo e appoggiandolo delicatamente sul pavimento della stanza. Kageyama lo lasciò fare, guidandolo con le dita più esperte quando Hinata si bloccava in qualche passaggio. Kageyama rimase con indosso solo le mezza tunica che usava sotto l’armatura. Hinata non l’aveva mai visto senza armatura, aveva la pelle chiara e un fisico asciutto e scolpito. Lo prese poi per mano, la sua mano era ruvida per i calli del costante allenamento con la spada e calda. Era la prima volta che toccava Kageyama ed era abbastanza sicuro che stesse superando parecchi confini che un umano non avrebbe dovuto oltrepassare, ma in quel momento non gli interessava e, soprattutto, sentiva che quello di cui Kageyama aveva bisogno.
Hinata recuperò un catino d’acqua già calda, messa nella stanza di Kageyama da uno degli spiriti dell’aria probabilmente.
Si inginocchiò davanti a lui, bagnò una pezza nell’acqua calda e profumata di oli essenziali e cominciò a passarla delicatamente sulle gambe di Kageyama. Risalì piano per tutto il suo corpo, lavando con attenzione anche gli schizzi di sangue che erano riusciti a penetrare attraverso l’armatura di bronzo. Gli prese il viso tra le mani e glielo fece voltare di lato, per pulirgli con attenzione il collo. Hinata passava delicatamente la pezza, non volendo insistere sulla pelle. Hinata si alzò in piedi quando arrivò al viso di Kageyama, passò delicatamente la pezza sulle sue guance, sul suo viso.
Kageyama chiuse gli occhi e si rilassò al contatto, con la testa reclinata verso l’alto. Il suo viso, rilassato, appariva più delicato, illuminato dalla luce della luna.
Hinata, quando finì, fece un passo indietro per osservare il suo lavoro. Alla luce delle candele non riusciva a vedere molto, ma almeno il grosso sembrava pulito.
Hinata si avvicinò nuovamente a lui, gli sciolse i capelli e accarezzò delicatamente il viso di Kageyama. Kageyama aprì gli occhi, ancora la testa inclinata verso l’alto e guardò Hinata negli occhi. Hinata gli sorrise dolcemente.
“Dormi adesso”, disse.
Si allontanò da lui, ma Kageyama lo prese per il polso.
“Resta”
Hinata potè leggere la preghiera silenziosa nei suoi occhi. Kageyama non voleva rimanere solo.
Hinata annuì e si avvicinò a lui.
“Sdraiati”
Kageyama lo fece. Hinata si sedette accanto alla sua testa e gliela fece appoggiare alle sue gambe. Il respiro di Kageyama gli solleticava le cosce lasciate scoperte dalla tunica corta.
Hinata cominciò a passargli le mani tra i capelli.
“E’ stato terribile”, disse Kageyama. “Non ho mai visto un massacro di questo tipo. Sono dovuto scendere in campo alla fine”
Hinata non disse nulla, continuò ad accarezzargli i capelli, mentre Kageyama continuava a parlare di quello che aveva visto.
Non riusciva a capire come facesse a sopportare tutto quello, era un mistero per lui. Come riuscisse a vedere quelle cose e sopportare tutto da solo.
Hinata portò una mano a stringere la sua gamba. Piano piano cominciò a rilassarsi, Hinata sentì il suo respiro farsi più regolare.
Hinata, cercando di non disturbarlo, cercò di districarsi per allontanarsi e lasciarlo dormire, ma nel dormiveglia Kageyama emise un mugolio triste. Hinata lo coprì meglio con il lenzuolo e si infilò nel letto con lui.
Kageyama si appoggiò al suo petto e Hinata lo strinse.
Hinata stava cominciando a capire perchè lo facesse. Voleva solo costruirsi un posto dove tornare che gli permettesse di dimenticare gli orrori della guerra. Quanto doveva essere terribile per lui tornare a casa e vedere che era temuto esattamente come lo era in guerra? Vedere tutti che cercavano sempre di allontanarsi da lui?
Hinata lo strinse un po’ più forte, Kageyama ricambiò la stretta, facendo passare una mano sulla pancia di Hinata e si rilassò un po’ di più nell’abbraccio.
Hinata lo tenne stretto per tutta la notte, non riuscendo a prendere sonno con tutti quei pensieri che si arrovellavano per la testa.
Voleva essere lui, realizzò.
Voleva essere il porto sicuro per Kageyama.
Voleva aiutarlo.
Nessuno poteva sopportare tutto quello da solo.
Sì, decise Hinata. Sarebbe rimasto.

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