Feb. 17th, 2021

chasing_medea: (Default)
Fandom: Haikyuu [SakuAtsu[
Missione: M3 - Sereno/Oscurità
Parole: 7148
Rating: safe




La prima volta che Kyoomi lo vide la luce del sole che passava attraverso le chiome degli alberi proiettava sul suo viso un gioco di luci ed ombre. 

Sakusa, diretto alla Sala dei Troni, si fermò di colpo, incapace di staccare gli occhi da lui. Aveva la schiena appoggiata al tronco di un gelso nero, gli occhi chiusi e le braccia dietro la testa. Accanto a lui uno dei torrenti che scorrevano sull’Olimpo curvava e proseguiva il suo percorso. La serena luce dell’Olimpo gli donava. Intorno a lui, ninfe e naiadi si affaccendavano, ridendo e parlando tra di loro. 

Kyoomi venne riportato alla realtà da qualcosa che gli veniva addosso. Abbassò lo sguardo, e vide un satiro che si stava rialzando da dove era caduto. Lo vide alzare lo sguardo verso di lui con fare infuriato, per poi riconoscerlo e sbiancare. Il fauno scattò in piedi e si inchinò davanti a lui,

“Mi scusi mio signore,” disse. “Non guardavo dove stavo andando.”

Kyoomi gli fece un breve cenno di assenso, e quello si inchinò ancora e andò via per la sua strada. Kyoomi riportò nuovamente gli occhi sul giovane. La confusione aveva attirato la sua attenzione, e adesso stava guardando nella loro direzione con fare curioso, i suoi occhi incontrarono quelli di Kyoomi. 

“Atsumu?” sentì una delle ninfe chiamarlo, e Atsumu riportò gli occhi su di lei.  

Quindi quello era il suo nome. Kyoomi si costrinse a distogliere lo sguardo da lui, approfittando della distrazione, e a continuare il suo cammino. L’Olimpo intorno a lui era il ritratto della serenità, con i suoi ruscelli e boschetti. Gruppi di ninfe e naiadi danzavano accanto ai loro domini, una dolce musica si spargeva nell’ambiente a partire dalla piazza in cui si riunivano le Muse, circondate da statue dei poeti che avevano ispirato nei secoli. Cantavano le gesta degli eroi a cui avevano assistito. 

L’Olimpo era il ritratto della serenità da cui Kyoomi era stato escluso centinaia di anni prima.  

La Sala dei Troni era al centro esatto dell’Olimpo, da lì si dipanavano a raggio sentieri e strade che conducevano in ogni direzione si potesse desiderare. Il marmo bianco di cui era fatta era accecante per i suoi occhi così abituati all’oscurità, Un colonnato circolare proteggeva dodici troni dello stesso marmo bianco disposti in cerchio, un tredicesimo trono, il suo, di granito nero occupava il vertice basso del cerchio. Kyoomi sapeva che quel trono sarebbe stato rimosso non appena lui avesse messo piede fuori dall’Olimpo e gli altri troni sarebbero stati disposti nuovamente nella loro tradizionale posizione a ferro di cavallo, con i troni di Zeus ed Era al centro. 

Il Concilio degli Dei stava per cominciare, ma ancora nessuno dei suoi familiari era giunto sul posto. Il Concilio si teneva ogni anno, ed era l’unica occasione in cui Kyoomi saliva sull’Olimpo, nonostante la sua presenza mettesse la sua famiglia sulla difensiva era l’unica occasione da cui non erano riusciti ad escluderlo. La sua presenza non faceva che ricordare ai suoi familiari l’esistenza stessa dell’oscurità: qualunque cosa potessero fare, qualunque inganno potessero architettare, qualunque eroe potessero decidere di sostenere, tutto sarebbe finito nel regno di Kyoomi, dove nulla di tutto quello aveva importanza. La presenza di Kyoomi non faceva altro che ricordare ai suoi fratelli la vanità delle loro dispute e del loro orgoglio, e ogni volta facevano il possibile per evitarlo. Con un sospirò, Kyoomi occupò il suo trono e si rassegnò ad aspettare. 




Tornare nel proprio regno fu un sollievo per Kyoomi. 

Sulla strada del ritorno, dopo la fine del Concilio, Kyoomi era tornato sui suoi passi, percorrendo la stessa strada che aveva percorso all’andata. La speranza, non ammessa ad alta voce neanche a sè stesso, era stata quella di poter rubare un’altra occhiata di quel ragazzo, ma lui non era più lì. Il boschetto era silenzioso, il ruscello continuava a scorrere senza che nessuno stesse lì ad ascoltarlo. Kyoomi aveva seppellito la delusione nello stomaco, si era detto che era meglio così e, adesso che era finalmente a casa, non vedeva l’ora di mettersi quella storia alle spalle. 

Era stato solo un momento di follia, uno che non avrebbe avuto conseguenze, si era detto. Adesso sarebbe potuto tornare ai propri affari, al proprio lavoro, al silenzio del proprio regno. 

Nei giorni seguenti, però, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva l’immagine di quel ragazzo. Il modo in cui i suoi lineamenti apparivano rilassati mentre si godeva la calma dell’Olimpo, in cui il bronzo della sua pelle risultava ancora più evidente baciato dai quei pochi raggi di luce che penetravano attraverso le chiome degli alberi. E soprattutto il modo in cui i suoi occhi si erano soffermati sulla figura di Sakusa, in quell’unico momento in cui aveva guardato nella sua direzione, e ogni volta il suo cuore aumentava il ritmo dei propri battiti, dando l’impressione che il suo petto fosse troppo stretto per contenerlo. 

Kyoomi stava perdendo il controllo dei propri pensieri, e la sensazione non gli piaceva per niente. Sapeva cosa volesse dire tutto quello, aveva più familiarità con quei sentimenti di quanto gli sarebbe piaciuto avere. Per mano dei suoi fratelli, aveva visto troppi finire nel suo regno prima che fosse giunto il loro momento — ancora ricordava il disordine gettato sul suo regno dalla guerra di Troia — e se c’era qualcosa che aveva giurato a sè stesso quando era stato relegato in quell’angolo di mondo, era che lui non sarebbe mai stato come il resto della sua famiglia. 

Resistette tre giorni prima di rompere una delle regole che aveva imposto su sé stesso. Era sdraiato a letto, impossibilitato a prendere sonno nonostante la stanchezza accumulata, quando gli venne in mente ancora una volta il volto di quel giovane. Le sue difese erano troppo basse, e il suo buon senso troppo stanco: senza pensare troppo a quanto stesse facendo, fece ricorso ai propri poteri da dio, amplificò la propria percezione fino a trovare il ragazzo e lo osservò per qualche attimo. 

Sulla terra era giorno, registrò rapidamente Kyoomi. La visione non era chiara, una serie di immagini sfocate, ma l’immagine di lui, al centro del quadro, era chiarissima. Sembrava essere in un campo di grano, sdraiato in mezzo alle spighe, sotto un cielo azzurro come Kyoomi non ricordava più potessero esistere. Intorno a lui si accerchiavano persone troppo sfocate per essere riconosciute. Lui stava sorridendo apertamente, con gli angoli degli occhi semichiusi arricciati. Era la prima volta che Kyoomi lo vedeva ridere, e il cuore nel petto non aveva mai battuto così velocemente. Lo vide aprire la bocca e dire qualcosa, e Kyoomi   desiderò essere lì anche lui, scoprire che suono avesse la sua voce, come suonasse la sua risata, 

Sapeva che avrebbe dovuto fermarsi, ma vederlo così, sereno e rilassato, stava facendo rilassare anche lui. Si sarebbe accontentato di quello, e dopo quella sera non lo avrebbe fatto mai più.

Si addormentò in poco tempo e con un accenno di sorriso sulle labbra. Sognò campi di grano e ruscelli d’acqua limpida che scorrevano in fruscii delicati. 




Doveva essere solo per una volta, ma in breve tempo divenne un’abitudine. Arrivato il momento di dormire, Kyoomi si stendeva a letto, non riusciva a prendere sonno e, che lo volesse o meno, tornava a cercarlo. Vederlo aveva qualcosa di rasserenante. Qualcosa nella sua figura faceva distendere i muscoli tesi delle spalle e del collo, contratti dopo l’ennesima giornata passata tra scartoffie e processi alle anime appena giunte, che dovevano essere collocate nel posto giusto. 

Eppure qualcosa in quelle visioni diventava ogni giorno più doloroso. Ogni volta che lo vedeva ridere o parlare, sentiva una corda tirare il suo cuore nella sua direzione. Il desiderio di alzarsi dal letto e andare a sentirlo di persona diventava ogni giorno più forte, più irrefrenabile. 

Una sera Kyoomi si chiese anche se non sarebbe stato meglio non sapere, non sapere se stesse ridendo e non soffrire per il fatto di non conoscere il suono della sua risata, ma in breve la sua mente fu in preda all’angoscia. E se gli fosse successo qualcosa e Kyoomi non l’avesse saputo? Era meglio avere quel poco che poteva avere, ma almeno accertarsi che stesse bene. 

Nuovamente allargò le proprie percezioni fino a sentire la sua presenza. Sulla terra era notte, e lui stava bene, accanto a lui c’era un ragazzo di cui Kyoomi non riusciva a riconoscere i lineamenti. I due erano sdraiati vicini accanto a un ruscello, guardavano le stelle probabilmente. L’espressione sul suo viso era diversa da qualunque altra avesse mai visto. Era adorante, ma con un fondo di sofferenza che Kyoomi non riusciva a identificare. Vide il ragazzo guardare in basso, verso le loro mani distese sull’erba, vicine ma non a contatto. Poteva vedere nei suoi occhi il desiderio di chiudere quella distanza e intrecciare le loro dita. Qualcosa detta dal ragazzo con i capelli scuri richiamò la sua attenzione, e Atsumu riportò lo sguardo sul viso dell’altro. Sorrise di qualcosa che il ragazzo aveva detto, ed era la cosa più distante che Kyoomi avesse mai visto dal suo sorriso. 

Irrazionalmente provò l’istinto di distruggere la persona che gli stava causando quella sofferenza. 

Kyoomi interruppe improvvisamente la visione e scattò sul letto. Il cuore gli batteva all’impazzata, ma con una pesantezza diversa. Non era lo sfarfallio leggero che gli causava la vista della risata di Atsumu, era la pesantezza dell’orrore. Quello che aveva pensato— Era qualcosa che avrebbero fatto i suoi familiari, gli altri dei, non lui. Stava diventando come loro, pensò con il panico che gli attanagliava lo stomaco e prendendosi la testa tra le mani, stava diventando come aveva promesso a sé stesso che non sarebbe mai diventato. 

E c’era un’altra pesantezza sul suo petto, una che non voleva ammettere davanti a sè stesso. Era un dolore sordo e profondo. Il fatto che non fosse sorpreso dal fatto che Atsumu avesse già qualcuno nel suo cuore non significava che non facesse male saperlo. Desiderò non aver mai guardato, aver seguito il suo primo istinto e rimanere all’oscuro di tutto. Ma soprattutto lo raggiunse una realizzazione, profonda e definitiva. Qualunque cosa quella fosse doveva finire. 

Si alzò dal letto e si rimise alla sua scrivania. Quella notte non avrebbe dormito, tanto valeva portarsi avanti con il lavoro. 




Kyoomi riuscì a resistere per qualche giorno, a prezzo di difficoltà a prendere sonno e nottate agitate. Ma la preoccupazione un giorno ebbe la meglio. Voleva assicurarsi che chiunque fosse quella persone, facesse stare bene Atsumu. Era l’unico ad avere il potere di cancellare quella tristezza dai suoi occhi in quel momento e, contro ogni istinto di autoconservazione, in fondo Kyoomi sperava che lo facesse. Provò a guardare, giusto un controllo per sapere come se la passa, si disse. Quello che vide, però, gli fece riconsiderare tutti i propositi precedenti. 

Atsumu era steso sull’erba, e questa volta era solo. Il cielo nuvoloso non permetteva di vedere le stelle. Non c’era alcun accenno di sorriso sul suo viso, chiuso in una maschera di compostezza separata. Gli occhi erano ancora lucidi. 

Kyoomi non ci pensò due volte, si alzò dal letto, recuperò il suo mantello e il suo elmo dell’invisibilità. Salì sulla terra e, senza farsi notare, si avvicinò ad Atsumu. Atsumu non lo sentì arrivare. Da vicino il suo volto aveva i lineamenti delicati, i capelli biondi come il grano di cui era solito circondarsi tradivano la sua discendenza dalla dea della natura. 

Kyoomi provò a pensare a cosa potesse fare per farlo stare meglio, anche solo in parte, e l’unica cosa che gli venne in mente fu fare la stessa cosa che Atsumu aveva inconsapevolmente fatto per lui: dargli un punto di luce nell’oscurità della sua dimora. 

Convocò le lucciole, da sempre compagne della sua oscurità e guardiane delle entrate dell’oltretomba, e le inviò ad Atsumu, ancora steso sull’erba.

In breve, Atsumu fu circondato da uno sciame di luce, rischiarando il suo viso. Atsumu le guardò rapito, seguendo la traiettoria del loro volto con gli occhi pieni di meraviglia. Un sorriso cominciò a crescere sulle sue labbra, rasserenanando i suoi lineamenti. E Kyoomi, nascosto nell’oscurità rimase ad osservare quel viso che a poco a poco tornava quello che era sempre stato. 

Se la sua teoria era giusta, se veramente Atsumu stava soffrendo per amore, non sarebbe bastato quel poco a farlo stare meglio, ma almeno Kyoomi aveva la consapevolezza di stargli regalando un momento di serenità nell’oscurità della notte. 

Poteva sentire l’alba avvicinarsi, e Kyoomi avrebbe voluto poter bloccare il tempo per poter restare in quel momento ancora un attimo. 

L’arrivo dell’aurora fece allontanare le lucciole, ma il viso di Atsumu rimase sereno. Kyoomi cercò di rimanere quanto più possibile, anche quando il primo raggio di sole spuntò all'orizzonte ferendogli gli occhi ormai troppo abituati all’oscurità, Kyoomi rimase. Atsumu non sembrava intenzionato a muoversi da quel punto. 

Era la prima volta che Kyoomi aveva la possibilità di guardarlo così da vicino. Le sue visioni non erano in grado di tenere testa a quello che adesso si trovava davanti. Atsumu in carne e ossa, vicino. Poteva sentire il sottile rumore del suo respiro e il suo cuore ancora anelava di sentire una risata uscire da quelle labbra, ma il sole cominciava ad essere alto e il dolore insopportabile. Kyoomi ritornò al suo regno, con il corpo che già fremeva per voltarsi e tornare ancora una volta sulla superficie. 




La visita sulla superficie riaccese in Kyoomi il desiderio di luce. Se prima si limitava a spiare cosa accadesse sulla superficie nei momenti prima di addormentarsi, adesso si ritrovava spesso a distrarsi durante il lavoro per sbirciare cosa stesse accadendo. Il desiderio di luce si mescolava alla preoccupazione per Atsumu, rendendogli quasi impossibile restare concentrato sul proprio lavoro. 

La preoccupazione per Atsumu continuava a crescere. Erano giorni che non lo vedeva ridere, i sorrisi che rivolgeva agli altri nei momenti in cui non era solo erano circostanziali, freddi e non raggiungevano i suoi occhi. Kyoomi era infuriato, come potevano le persone intorno a lui non accorgersi di quanto Atsumu stesse soffrendo era un mistero per lui. Tutti avrebbero dovuto fermare quello che stavano facendo e correre da lui, prendersi cura di lui. Esattamente come avrebbe voluto fare lui che non poteva, che era costretto così lontano.

Il punto di rottura, Kyoomi lo raggiunse in una giornata di sole. In un prato immenso, Atsumu stava raccogliendo fiori. Il suo viso era più rilassato di quanto Kyoomi non lo avesse visto negli ultimi giorni, ma le occhiaie erano pesanti, scure e profonde anche sulla sua pelle baciata dal sole. Atusmu non era da solo, occasionalmente scambiava qualche parola con qualcuno nelle vicinanze, ma Kyoomi non poteva vedere chi altri fosse con lui. Kyoomi vide Atsumu alzare lo sguardo, sorridere a qualcuno con quel sorriso di cortesia che aveva imparato a rendere impeccabile nei giorni precedenti, poi lo vide abbassare nuovamente la testa e restare fermo per qualche momento, fissando un fiore che non riusciva a vedere attraverso il velo di lacrime che copriva i suoi occhi e che stava cercando disperatamente di non far cadere. Le sue labbra erano strette in una linea sottile. L’espressione sul suo viso in quel momento ruppe il cuore il Kyoomi. Non poteva sopportare di vederlo così. 

Si alzò di scatto dalla sua scrivania e andò verso il carro. Sarebbe andato contro l’ultima delle regole che aveva imposto a sé stesso, avrebbe fatto quello che i suoi fratelli avevano già fatto in precedenza, quello che aveva mandato tante anime nel suo regno prima che fosse il momento giusto, ma in quel momento nulla importava, se non portare Atsumu via da quel luogo, da quel posto che tanto lo stava facendo soffrire. Anche solo per un momento. 

Di passaggio, accarezzò la testa a Cerbero, seduto fedelmente davanti al suo ufficio come ogni altro giorno. I cavalli erano già pronti, scalpitavano per partire, sbuffando e scalciando il terreno. Kyoomi li accarezzò prima di montare sul carro e dargli il segnale per partire.

Partirono al galoppo con la furia di chi era fermo da troppo tempo. Kyoomi corse, corse più veloce di quanto non avesse mai fatto eppure gli sembrava di essere troppo lento. Contava i secondi che mancavano per emergere sulla superficie e continuavano a sembrargli troppi. Dietro il carro sentiva Cerbero correre, il respiro corto per la fatica, ma poteva sentire la gioia del cane a tre teste di poter finalmente correre libero.  




Le spighe circondavano Atsumu fino all’altezza delle cosce, ma mai come in quel momento avrebbe voluto che fossero abbastanza alte da nasconderlo interamente dal mondo intero. Era stanco di nascondere i segni delle notti insonni dietro un sorriso, era stanco di doverlo vedere tutti i giorni e fare finta che tra di loro le cose andassero bene, come se due giorni prima non lo avesse visto rotolarsi nell’erba accanto al ruscello con una naiade. Come se il suo cuore non fosse andato in frantumi.

Si era sempre detto che gli stava bene così, che tenere quell’affetto chiuso nel proprio petto sarebbe stato abbastanza per lui, ma a quanto pare aveva mentito a sè stesso. Era stato ingordo, aveva voluto di più. Se non lo avesse fatto, se non fosse andato a cercarlo, starebbe ancora vivendo nella splendida illusione delle possibilità inesplorate, non nel mondo reale dei vicoli ciechi. 

In mezzo alle spighe, Atsumu vide un punto rosso. Si avvicinò e lo trovò lì, un papavero che era riuscito a crescere in mezzo alle spighe, che nonostante tutto era riuscito a fiorire. Intorno a lui non aveva nessuno della sua specie. Si soffermò a guardarlo per qualche momento, non riuscendo a non pensare che fosse un segno degli dei. Quante probabilità c’erano di trovare in quel luogo il fiore della consolazione? Mentalmente mandò una preghiera agli dei.

Sentì la sua voce chiamarlo, era distante da lui. Gli stava dicendo che loro sarebbero andati avanti, che lo aspettavano più avanti. I suoi capelli nerissimi erano mossi da una sottile brezza. Atsumu mise su il suo sorriso più convincente e li lasciò andare via.

Si chinò nuovamente sul papavero, ma il velo di lacrime che copriva i suoi occhi ne offuscava i contorni, rendendolo solamente una sfocata macchia rossa. 

Avrebbe voluto rimangiarsi la preghiera che qualche attimo prima aveva rivolto agli dei. Se non si fosse fermato a osservare quel fiore forse non avrebbe dovuto sentire la sua voce, non si sarebbe dovuto ricordare di quando gli aveva sentito sussurrare dolci parole ad una ninfa dai capelli rossissimi sulle rive di un ruscello, appena qualche notte prima. Il suo tono di voce era stato delicato come non lo aveva mai sentito, la ruga sulla fronte che aveva sempre addosso appianata per qualche momento, il viso più disteso di quanto non lo avesse mai visto. 

Atsumu si chinò verso il fiore, lo afferrò e con forza, ira e sdegno lo strappò dal terreno. Avrebbe voluto buttarlo a terra e calpestarlo fino a che non fosse rimasta una poltiglia informe, impossibile da riconoscere, impossibile da far rinascere. Solo una macchia in un campo di grano che presto avrebbe dimenticato la sua presenza. 

Il boato cominciò a crescere da sotto i suoi piedi, prima distante e poi sempre più vicino. Faceva tremare la terra, e Atsumu era instabile sulle sue gambe. Cercò di mantenere l’equibrio, ma si trovò comunque ad indietreggiare. Il cuore gli batteva all’impazzata, il terrore gli faceva sentire le gambe molli. Avrebbe voluto correre, ma sentiva che nessun muscolo del suo corpo rispondeva ai suoi comandi. 

La fessura da cui aveva strappato il fiore cominciò ad allargarsi. Aveva scatenato l’ira degli dei disprezzando il loro dono? Atsumu cominciò a pregare, a chiedere perdono. La fessura si allargò fino a diventare uno squarcio nel terreno. Ne saltò fuori un carro nero, le gemme che lo adornavano rilucevano sotto la luce del sole, rendendolo splendente come una notte stellata, L’occupante del carro indossava un’armatura interamente nera, decorata con le stesse gemme, splendenti nell’oscurità che li circondava. Sembrava fuori posto in un campo di grano, contro il cielo sereno.

La figura si sporse dal carro senza farlo rallentare, afferrò Atsumu per la vita e lo caricò sul carro accanto a lui.  Atsumu urlò, ma nessuno era abbastanza vicino da sentirlo, erano tutti andati avanti senza di lui. Urlò ancora nel deserto.

Il carro si tuffò nuovamente nello squarcio da cui era saltato fuori, e poi fu solamente il buio. 




Quando Atsumu si svegliò, il primo pensiero fu che dovesse essere ancora notte. La camera in cui si trovò era lussuosa, il letto su cui era sdraiato morbido, ma l’unica luce nella stanza proveniva da alcuni bracieri sparsi lungo le mura, che davano alla stanza contorni spettrali e cupi. Gli ci volle qualche momento per accorgersi che, nella stanza, non c’erano finestre. Trovò la porta e uscì dalla stanza, con il cuore in gola e un velo di sudore freddo sulle mani. Si trovò in un lunghissimo corridoio, il pavimento di marmo nero striato di bianco rifletteva le fiamme che crepitavano nei bracieri. Sembrava andare avanti  all’infinito. Atsumu, dopo un attimo di incertezza, scelse di andare a sinistra.

Camminò un po’ prima di vedere un portone alla sua destra. Era maestoso, finemente ricamato con scene inquietanti che fecero annodare lo stomaco ad Atsumu, raccontava storie di amanti separati, di guerre, di devastazione e sofferenza. Numerose gemme adornavano il metallo, punti luce di ogni sfumatura di colore l’occhio fosse in grado di percepire. 

Atsumu capì in quel momento dove fosse. L’oltretomba, la dimora del re degli inferi. Si ricordò degli avvertimenti di sua madre su quel posto: non fidarti dei doni del sottosuolo, non mangiarne i frutti, non cercare di fuggire, l'uscita va guadagnata. 

Aprì il portone e si ritrovò in una sala grande, il soffitto maestoso ricordava quello di una grotta in riva al mare, cristalli viola illuminavano la volta. In fondo alla sala, invece del trono che Atsumu si sarebbe aspettato, vide una pedana rialzata, numerose scartoffie erano accumulate lì. Il re degli inferi, con la testa abbassata stava scrivendo qualcosa. 

Alzò la testa quando sentì aprì la porta e sul suo volto si dipinse un’espressione che Atsumu non riuscì ad interpretare. Il dio si alzò dalla sua postazione, scese le scale della pedana fino a raggiungere il pavimento e cominciò a camminare verso di lui. 

La sua presenza era maestosa, la sua figura imponente. Atsumu si ritrovò con i piedi incollati al pavimento, impossibilitato a fare anche un solo passo. 

Era la prima volta che Atsumu si ritrovava così vicino ad uno degli dei maggiori che non fosse sua madre. 

Più il re degli inferi si avvicinava più Atsumu vedeva quanto fosse diverso da quanto avesse immaginato.  Le statue lo avevano sempre rappresentato come una figura anziana e burbera, ma quello che vide davanti a lui non poteva essere più diverso. Aveva i capelli nerissimi e la pelle di porcellana appariva liscia e levigata, come quella di una statua. Aveva il portamento serio e dignitoso di chi indossa il proprio potere come una seconda pelle. Lui era il signore di tutto quello che era lì, e non permetteva a nessuno di dubitarne. 

Solo quando il dio arrivò vicino a lui e si fermò, Atsumu lo riconobbe. Si erano già incontrati, per un breve momento, mesi prima sull’Olimpo. E ripensò a quello che aveva pensato allora: la bellezza che si trovava davanti era eterea, devastante, distante irraggiungibile. Aveva la bellezza devastante di un temporale, possibile da osservare solo da lontano mentre ridefiniva i contorni del mondo. 

Qualcosa spinse Atsumu a fare qualche passo avanti, ad avvicinarsi al dio.

Quando fu vicino, esattamente come quella volta, non riuscì a staccare gli occhi dai suoi. Sapeva che avrebbe dovuto inchinarsi, ma il suo corpo non rispondeva ai suoi comandi. Il dio non sembrò risentirsi. Atsumu potè vedere una punta di paura nei suoi occhi quando si decise finalmente a parlare. Sembrava a disagio sotto lo sguardo di Atsumu, e sembrava frenarsi dal fare qualunque movimento che potesse spaventarlo. 

“Sei sveglio,” disse solo. 

La sua voce risuonò contro le alte pareti di marmo, contro il soffitto a volta della sala del trono. 

“Non so perchè sono qui”

“Per governare con me questo posto”

Atsumu sentì la propria bocca seccarsi, incapace di dare un senso a quelle parole. 

“Non credo di essere la persona che state cercando,” rispose con quanta più cortesia possibile. Atsumu si inchinò e uscì dalla stanza.  


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La camera che gli è stata assegnata è la camera più lussuosa che Atsumu abbia mai visto. Al seguito di una seconda ispezione, Atsumu può notarlo meglio di quanto avesse fatto a primo impatto. La paura è ancora forte in lui, ma almeno adesso sa di non essere in pericolo immediato. La camera è decorata con gemme brillanti, e la mattina successiva - o almeno quella che crede sia mattina - dopo essere caduto qualche ora prima in un sonno agitato, trova una tinozza di acqua bollente che lo attende al centro della stanza. Su una sedia sono appoggiate delle vesti di lino bianco, le più pregiate che Atsumu abbia mai avuto modo di indossare. Il tessuto è delicato sulla sua pelle. Appoggiato sul tavolo, Atsumu trova anche un diadema d’oro decorato con rubini. Lo prova per un momento, sulla testa è leggero ed è sicuro che se si guardasse allo specchio presente nella sua stanza gli sarebbe stato benissimo addosso, ma scelse di non indossarlo. 

Si sedette su una sedia nella sua stanza, incerto su cosa dovesse fare, fino a che non sentì bussare alla porta. 

Quando la andò ad aprire si trovò davanti Kyoomi in persona.

"Vorrei mostrarti una cosa," disse brusco e senza troppi preamboli.

Atsumu acconsentì, chiedendosi distrattamente se il re degli inferi avrebbe mai accettato un diniego, ma principalmente per curiosità. C'erano così tante storie sul regno dell'oltretomba, e Atsumu sapeva che gli stava venendo offerta un'opportunità più unica che rara. 

Kyoomi lo guidò per i corridoi del palazzo con sicurezza, e Atsumu nonostante volesse fermarsi a osservare meglio tutto ciò che si trovava intorno non osò né chiedere né fermarsi: quel luogo era un labirinto e c'era il rischio concreto che, se avesse perso Kyoomi di vista non avrebbe mai ritrovato la strada del ritorno.

Poco dopo sbucarono in una grotta, e ad Atsumu si mozzò il fiato in gola. La caverna era quasi illuminata a giorno dal bagliore delle gemme che conteneva. L'oro sulla volta alta dava l'impressione di un cielo stellato, gli smeraldi in terra ricordavano quasi un prato punteggiato da fiori di rubino e ametista.

"Tutto questo potrebbe essere tuo se accettassi la mia proposta," intervenne Kyoomi, interrompendo qualunque altro pensiero.

Atsumu sentì l'indignazione crescere nel suo stomaco. 

"Non è questo il punto," rispose fermo, al limite dello sgarbato. Alzò con un vago timore gli occhi su Kyoomi, ma quello che trovò sul suo viso era solo confusione.

Atsumu non riuscì a capire quale fosse l'obiettivo del dio nel mostrargli tutto quello. Gli venne in mente il primo avvertimento di sua madre: non fidarti delle ricchezze del sottosuolo.

Kyoomi abbassò gli occhi, quasi vergognoso. "Ero convinto— si dice sempre che la ricchezza sia un valore, tutti desiderano essere ricchi. Pensavo che lo volessi anche tu."

Atsumu rimase interdetto dalla confessione e non sapeva da dove cominciare. 

"Non è così per tutti," disse solo. "Non tutti desiderano essere ricchi"

"E tu cosa desideri?" chiese Kyoomi, con gli occhi brillanti come le gemme e la curiosità evidente nel suo viso.

"Non lo capiresti"

Kyoomi fece un passo indietro e non parlò oltre. In silenzio accompagnò Atsumu alla sua stanza e in silenzio si dileguò. Atsumu si chiese se non avesse dato la risposta sbagliata.






Atsumu aveva deciso di andare in esplorazione del cartello. Il palazzo era splendido, ma a conquistarlo fu il giardino. Atsumu aveva visto una porta, e da quella direzione aveva sentito venire il profumo più dolce che avesse mai sentito. Quando l'aveva aperta si era trovato davanti qualcosa di spettacolare.

Il giardino era una delle cose più belle che Atsumi avesse mai visto. Atsumu vagò per i sentieri, studiando le piante che non aveva mai visto, meravigliandosi davanti ai fiori colorati in tonalità che Atsumu mai aveva pensato potessero avere, così brillanti da risplendere nell’oscurità. Non aveva idea di come il giardino potesse fiorire in quel modo in assenza di luce, ma lo faceva, ed era una meraviglia.

Cerbero gli fu addosso in un attimo, gli girava intorno alle gambe felice, contento di avere qualcuno con cui condividere la passeggiata. Atsumu provò ad avvicinarsi e accarezzargli una delle teste. Dovette mettersi sulle punte dei piedi per farlo, ma Cerbero sembrò apprezzare le coccole che gli venivano riservate.

Atsumu sentì la porta del giardino aprirsi e vide Kyoomi entrare nel giardino dietro di lui, ma rimase in disparte e non disturbò la passeggiata di Atsumu. Fu Atsumu a fargli cenno di raggiungerlo e Kyoomi lo fece. Atsumu continuò la sua passeggiate nell’immenso giardino, con Kyoomi che silenziosamente gli camminava accanto. Il silenzio sembrava non disturbarlo.

“Sei tu a prendertene cura?” chiese Atsumu, voltandosi verso di lui.

Kyoomi sembrò essere preso alla sprovvista. A pensarci bene era la prima volta che Atsumu gli rivolgeva la parola per primo.

“Sì,” rispose con voce incerta. “A nessuno importa di come appare questo posto. Sono l’unico che ci vive… a parte Cerbero. Gli piace qui”

Atsumu sorrise e Kyoomi non riuscì più a staccare gli occhi dalle sue labbra. Un sorriso onesto, il primo da troppo tempo, e Atsumu lo stava rivolgendo a lui. 

“Borbotti quando sei nervoso,” disse Atsumu ridendo. Kyoomi sentì il calore risalirgli sulle guance, una sensazione che non aveva mai provato prima. Ma l'imbarazzo era nulla in confronto al potere sentire finalmente quella risata dal vivo dopo mesi passati a guardarla da lontano. Cercò di nasconderlo, ma Atsumu lo aveva visto. 

Il signore degli inferi era molto meno spaventoso di quanto avesse pensato in origine. 

Stavano ancora camminando nel giardino quando raggiunsero il centro del giardino, dove si ergeva rigoglioso un albero di melograno. Era da quello che derivava il profumo delizioso che lo aveva inizialmente attirato nel giardino. Ad Atsumu venne l’acquolina in bocca, e si ricordò del secondo avvertimento di sua madre: non mangiare nulla che derivi dal sottosuolo. 

Intorno alle chiome dell’albero, uno sciame di lucciole illuminava le foglie come stelle nel cielo. Era uno spettacolo meraviglioso. Ad Atsumu tornò in mente uno spettacolo simile a cui aveva assistito non molto tempo prima, in un altro bosco. Un sospetto cominciò ad affacciarsi alla sua mente, si voltò verso il re degli inferi e lo studio per un momento. Il re non se ne accorse, con gli occhi seguiva il volo delle lucciole, seguendo le scie di luce che creavano nel cielo scuro. Ogni volta che lo guardava Atsumu si rendeva conto di quanto fosse bello, i lineamenti del suo viso avevano un’eleganza statuaria. Era un peccato che una tale bellezza vivesse rinchiusa in un posto del genere, lontana da dove poteva essere veramente apprezzata, esattamente come il giardino di cui si prendeva cura. 

“Quella notte,” disse Atsumu in un sussurro incredulo “Quella notte sei stato tu”

“Eri triste,” rispose Kyoomi. “E io avevo un debito da saldare?”

“Un debito?”

Kyoomi non elaborò, continuando a guardare il volo delle lucciole con uno strano sguardo sul volto. Atsumu sentì un nuovo moto d’affetto attanagliare il suo cuore. Adesso poteva mettere in prospettiva tutto, anche la sua offerta di gemme e ricchezze. Non stava cercando di comprarlo, stava cercando di convincerlo che valeva la pena di restare, se non per lui almeno per quello che avrebbe guadagnato.

Nei giorni precedenti lo aveva visto senziare le sorti delle anime, ed era giusto, fermo e deciso, ma non spaventoso. Chiunque raccontasse le storie sulla superficie avrebbe avuto seriamente bisogno di correggere il tiro. 




Atsumu cominciò ad abituarsi alla sua vita in quel posto. Appena sveglio passeggiava per il giardino con Cerbero, che spesso gli faceva compagnia, come se volesse approfittare che ci fosse qualcuno con cui passare le sue giornate quando il suo padrone era sempre così occupato. 

Negli ultimi giorni Kyoomi era raramente uscito dalla Sala Grande, sempre seduto fisso alla sua scrivania. Era evidente che l’afflusso di anime era stato molto superiore a quanto fosse di solito. Atsumu si chiese preoccupato se fosse successo qualcosa sulla terra. In quei giorni ebbe anche l’occasione di vedere alcuni processi alle anime, e questi confermarono la sensazione che aveva avuto di Kyoomi. Era un re giusto, inflessibile con gli altri come lo era con sè stesso, ma assolutamente giusto.

Atsumu prese l’abitudine di fermarsi ogni giorno, dopo la sua passeggiata, nella Sala Grande. Di solito Kyoomi metteva in pausa il suo lavoro e si intratteneva un po’ con lui. Quel giorno, quando Atsumu entrò, Kyoomi era talmente concentrato sul suo lavoro da non rendersi conto del suo ingresso. 

Stando attento a non fare rumore, Atsumu salì sulla pedana fino ad essere alle sue spalle. L’espressione sul suo volto era concentrata mentre studiava i report delle anime che giungevano fino a lui. Ad Atsumu venne da chiedersi come facesse a fare quel lavoro tutto il giorno senza avere nulla in cambio, senza avere qualcosa che gli ricordasse l’esistenza anche della serenità nel mondo. Viveva circondato dalla sofferenza, senza un raggio di luce a riscardargli il volto e ricordargli che esisteva anche altro al mondo. 

Senza pensarci troppo, Atsumu si avvicinò a lui, e gli passò una mano tra i capelli. Erano lisci al tatto esattamente come Atsumu aveva immaginato. Kyoomi saltò sul posto, e alzò lo sguardo per guardare Atsumu. 

“Scusami,” disse come prima cosa. Ma Atsumu non voleva sentire scuse. Fece scivolare la mano dai suoi capelli fino ad appoggiarla sulla sua guancia. Kyoomi aveva cerchi scuri intorno agli occhi e l’espressione di chi non aveva dormito decentemente da giorni. La sua pelle era fredda al tatto, ma stava cominciando a colorarsi e scaldarsi sotto i polpastrelli di Atsumu.

“Dovresti dormire,” gli disse.

“Se lavoro quando dormi posso passare il tempo con te quando sei sveglio”

“E quando dormi tu?”

“Non ne ho bisogno”

“La tua faccia dice il contrario”

Kyoomi appoggiò meglio la testa sulla mano di Atsumu, godendosi il calore sulla sua pelle, come un raggio di sole. Depositò un bacio leggero all'interno del suo polso. Atsumu sentì il calore prendergli l’intero corpo davanti al modo in cui quegli occhi studiavano il suo viso, Era il contatto più intimo che avessero mai avuto, e Kyoomi doveva essersi reso conto della cosa. Scattò indietro, mormorando ancora una volta le sue scuse, e tornò a lavorare. Atsumu avrebbe voluto richiamarlo, risentire quel calore e quel peso contro la sua mano, ma scoprì di non conoscere le parole giuste per farlo. 




La carestia era caduta sull’umanità. La madre che non poteva accettare la perdita di suo figlio vagava per la terra, con i capelli di grano, dello stesso colore di Atsumu, scarmigliati intorno alla sua figura, urlando il nome del figlio come una baccante.

Anche il padre degli dei non poteva più ignorare quella situazione e mandò il messaggero degli dei nell’Oltretomba.

Kyoomi vide Komori presentarsi alla sua porta, con un ordine impossibile da rifiutare di consegnare Atsumu alla madre. Kyoomi non voleva lasciare andare Atsumu, ma non c’era nulla che potesse fare per opporsi al volere di suo fratello. Atsumu era un punto di luce nell’Oltretomba, ma nessuna serenità poteva durare in quel luogo, e Kyoomi avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro, invece di cullarsi in una speranza cieca e irrazionale. Atsumu era stato lì per poco tempo, e già Kyoomi non riusciva a ricordare come fosse quel posto senza di lui. 

Kyoomi si alzò e andò a cercare Atsumu. Lo trovò nel giardino, che innaffiava le piante. 

“Questa va innaffiata una sola volta a settimana,” gli disse non appena lo vide. “Le stavi dando troppa acqua.”

“Me ne ricorderò,” gli disse Kyoomi con un accenno di sorriso. Porse una mano ad Atsumu per aiutarlo ad alzarsi. 

Atsumu lo guardò per un momento, incuriosito dal suo comportamento. Aspettò che Kyoomi si decidesse a parlargli. Kyoomi, di fronte a lui, continuava a guardarlo e riusciva solo a pensare a quanto non volesse vederlo andare via. Portarlo lì era stata una scelta di impulso, ma adesso che lo conosceva meglio sentiva che lasciarlo andare via sarebbe stato come rinunciare a qualcosa che era diventato un pezzo di sè. Eppure si rendeva conto che tenerlo lì sarebbe stata una crudeltà. Atsumu era serenità, e meritava di stare dov’era il sole. 

“Tornerai sulla superficie,” gli disse Kyoomi, e proseguì poi a spiegargli cosa fosse successo sulla Terra. Gli occhi di Atsumu si fecero tristi al pensiero della sofferenza di sua madre, ma l’idea di lasciare il re degli inferi di nuovo alla sua solitudine gli spezzava il cuore. Non poteva farlo, non voleva farlo. Ad Atsumu tornarono in mente le sue parole.

“Cosa succede a chi mangia i frutti degli inferi?” chiese.

“Sarà per sempre legato a questo posto”

“E se non viene mangiato un intero frutto?”

Kyoomi lo guardò confuso. “Nessuno ci ha mai provato”

“Allora scopriamolo”

Atsumu si allontanò da lui, verso l’albero di melograno. Prese un frutto e lo spaccò a metà, il succo rosso colò sulle sue mani, il profumo era inebriante e per un momento Atsumu ebbe paura che non sarebbe riuscito a fermarsi ai pochi chicchi che si era ripromesso. Prese tre chicchi e se li portò alla bocca lentamente. Kyoomi gli era corso dietro, ma quando lo raggiunse era già troppo tardi. 

“Sei chicchi,” disse Atsumu. “Come i giorni che ho passato qui.”




Insieme raggiunsero la superficie. Il sole era tornato a splendere ed era visibile attraverso l’apertura della caverna. Gli occhi di Kyoomi facevano male, ma era determinato ad accompagnare Atsumu fino all’uscita. Quando raggiunsero lo spicchio di luce del sole che illuminava il pavimento della caverna, Atsumu si voltò verso Kyoomi e gli mise una mano sulla guancia.

“Prenditi cura di Cerbero,” gli disse.

“Sì.”

“E non dimenticarti delle piante,” Atsumu stava cercando di tenere la voce calma, ma il groppo che sentiva nella gola glielo rendeva quasi impossibile, gli angoli degli occhi gli bruciavano.

Kyoomi mise la mano sulla sua, la staccò dalla sua guancia e ne baciò il palmo, prima di lasciarlo andare.

Atsumu si voltò verso la luce e cominciò a camminare. Davanti all’ingresso della grotta, lo attendeva sua madre. Non appena fu fuori la madre lo strinse in un abbraccio soffocante, troppo commossa per proferire parola, poi lo prese per le spalle e lo staccò da sè, studiando attentamente il suo volto e il suo corpo. 

Atsumu si voltò, nella speranza di poter dare un’ultima occhiata a Kyoomi, ma quello non era più visibile, nonostante Atsumu potesse ancora percepire la sua presenza. Kyoomi, con indosso il suo elmeno dell’invisibilità, era ancora lì, al limite di dove poteva arrivare, cercando di tenere Atsumu nel suo campo visivo fino all’ultimo momento possibile.

Un urlo della madre richiamò l’attenzione di Atsumu. Il suo volto era impallidito, e lo guardava con gli occhi spalancati e pieni di terrore. 

“Hai— Hai mangiato,” disse. 

Atsumu annuì, fermo e deciso, senza dubitare neanche per un momento della sua scelta. 




Il palazzo senza Atsumu era buio e silenzioso, le ore di lavoro lunghe e interminabili quando non aveva la certezza che a un certo punto Atsumu sarebbe spuntato da quella porta e gli avrebbe sorriso.

L’accordo che avevano raggiunto con gli dei era buono, ottimo per certi aspetti, ed era quanto di meglio avrebbe mai potuto sperare Kyoomi. Per sei mesi Atsumu sarebbe rimasto sulla superficie, e gli altri sei mesi li avrebbe passati lì, nell’Oltretomba con lui. La madre di Atsumu gli aveva dichiarato guerra, dicendo che avrebbe buttato tanto freddo sugli umani da farli morire come mosche, per tenerlo troppo occupato con il lavoro che non avrebbe potuto passare neanche un momento di tregua con Atsumu. Atsumu aveva protestato, ma Kyoomi non aveva dubitato neanche per un secondo che ne valesse la pena in ogni caso. Il solo sapere che avrebbe potuto alzarsi dalla sua scrivania e lo avrebbe trovato da qualche parte nella dimora, probabilmente nel giardino, probabilmente sotto il melograno, avrebbe reso quel periodi migliore degli altri sei mesi trascorsi senza di lui. Come il primo raggio di sole dopo una notte insonne, era così che Atsumu era per lui, o almeno così credeva, i suoi ricordi del sole erano piuttosto sbiaditi.

Certi giorni Kyoomi camminava per il giardino con Cerbero accanto, si aspettava di vedere Atsumu spuntare da dietro una siepe da un momento all’altro, ma non accadeva mai. Poteva ancora sentire nelle orecchie la voce di Atsumu che gli ricordava come prendersi cura di alcune piante che sotto le sue mani erano state quasi ridotte alla morte, e sotto quelle sapienti di Atsumu erano tornate vive e rigogliose. 

Una sera che non riusciva a dormire, Kyoomi sbirciò cosa stesse facendo Atsumu. Era su un prato, circondato di persone e rideva così forte che gli angoli degli occhi erano arricciati. Kyoomi sentì lo stomaco stringersi. Atsumu non aveva mai sorriso così con lui, e avrebbe dato qualunque cosa per vederlo e sentirlo. Si chiese se quei mesi passati in superficie avessero fatto cambiare idea ad Atsumu, se si fosse pentito della sua scelta, ma ogni pensiero del genere venne spazzato via quando arrivò il giorno del suo ritorno.

Kyoomi andò ad accoglierlo all’ingresso della caverna, lo stesso dove lo aveva lasciato sei mesi prima tra le braccia della madre. 

Il modo in cui Atsumu lo guardò in quel momento non lasciava spazio a dubbi, gli confermò che anche lui aveva sentito la sua mancanza tanto quanto lui aveva sentito quella di Atsumu. Atsumu gli venne incontro, velocizzando il ritmo ad ogni passo, fino ad essere fermo davanti a lui. La sua pelle aveva acquisito nuovamente quel tono bronzeo che solo stando sotto la luce diretta del sole, e i suoi occhi brillavano più di tutte le gemme che Kyoomi possedeva nel suo regno.

Atsumu gli sorrise e gli portò una mano sulla guancia. La sua pelle era calda. 

“Stai lavorando troppo,” gli disse come prima cosa. 

Kyoomi annuì, un lieve sorriso sulle labbra “Ho disperatamente bisogno di qualcuno che mi ricordi di dormire”

E Atsumu rise, di una risata umida, con gli occhi lucidi e colmi di sollievo. “Fortunatamente sono qui”

“Fortunatamente sei qui”



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